THE PILLS – SEMPRE MEGLIO CHE LAVORARE (2016), di Luca Vecchi
La crescita di YouTube come nuovo luogo (anti-)geografico di diffusione di media video è da un bel po’ una mezza minaccia per il cinema d’autore: si può dire che questo rivale è una piattaforma digitale, priva di struttura a meritocrazia (e non sempre è un bene), nel cui business può entrare chiunque possegga una webcam, basta avere fortuna, o essere bravi a creare una qualche sorta d’intrattenimento nel niente. Ma quest’intrattenimento, ci insegnano gli YouTuber italiani con più iscritti (Favij, iPantellas, Willwoosh, Greta Menchi, e altre figure che sono, a loro modo, interessanti fenomeni pop), è spesso creato da un mix inquietante di goliardie giovanili che spesso sono più che altro legate ad un approccio voyeuristico verso quello che queste figure definiscono “vita reale”, ovvero, sostanzialmente, il parlare velocemente e in maniera imbarazzata e imbarazzante della propria quotidianità, della propria crescita verso la fama, di battute sulle cose che capitano a “tutti noi” – o forse “tutti loro”, ovvero sostanzialmente il niente. I The Pills fanno parte di questo ambiente, ma nel contempo ne sono un po’ le figure emerginate e liminali: il trio composto da Luigi Di Capua, Luca Vecchi e Matteo Corradini (più una serie di amici, tra i quali il preferito è il nero Betani, che abbiamo incontrato con la coda dell’occhio al concerto dei Godspeed You! Black Emperor ad aprile 2015) ha formato una webserie di successo medio che, tra YouTube a Facebook, ha descritto i ritmi di una vita inetta (simile a quella di molti di noi…) atta ad una routine vuota fatta di canne e fame chimica, cinefilia e rare uscite di casa, compresi dialoghi deliranti e gag tirate molto alla lunga, come insegna la tradizione dell’humour “fattone” e gli sketch de I Griffin e compagnia bella. Nonostante la loro discreta fama nel circolo di internet, i The Pills sono sempre vissuti un po’ nell’ombra di loro colleghi più giovani e più pop, e quindi un arrivo nelle sale di un loro film è stato parzialmente inaspettato. Certo, la loro cinefilia è ben nota da tutta una serie di piccoli riferimenti sparsi qua e là nei loro video, e anche le loro collaborazioni assidue con figure anziane e celebri della cultura pop italiana (esempi notevoli: Gianni Morandi e Giancarlo Magalli) potevano suggerire che la loro operazione potesse essere più ambiziosa e ampia di quello che poteva apparire. In ogni caso, il loro film è arrivato dopo altre opere cinematografiche prodotte da YouTube Italia: possono venire in mente in particolare tre film, ovvero Fuga di cervelli (2013) di Paolo Ruffini, Game Therapy (2015) di Ryan Travis e Italiano Medio (2015) di Maccio Capatonda, tutti film più o meno comici e più o meno volgari e sempliciotti che vanno da un umorismo palesemente “cinepanettonesco” nel senso peggiore della parola ad un semi-elogio citazionistico della cultura videoludica odierna fino ad una satira burlesca che, perlomeno, arriva al far dire “c’hai provato”.
A causa di questi precedenti, aspettare al varco The Pills – Sempre meglio che lavorare con una smorfia un po’ spaventata è quasi un dovere. E in effetti tutto si può dire tranne che The Pills sia grande cinema o grande commedia. Con un uso tranquillo ma eccessivo della musica extradiegetica non originale (rock, punk, elettronica, cantautorato italiano), scene dal montaggio folle, modaiolo e videoclipparo, il film di Luca Vecchi risulta, tutto sommato, più vicino ad un video YouTube di un’ora e mezza che ad un film. Come i film di Aldo, Giovanni e Giacomo, The Pills non si focalizza tanto su uno sguardo a tutto tondo quanto su un’idea generazionale collettiva di fondo che poi, volta per volta, si adegua in maniera comica (ma non sempre) ai ritmi e ai drammi di ognuno dei tre personaggi: prima il rapporto tra Luca e il lavoro, poi la nostalgia di Luigi che a meno di 30 anni si sente invecchiare, e poi infine il doppio dilemma di Matteo che da una parte ha paura del padre, più “giovane dentro” di lui, e dall’altra ha paura di non essere più fisicamente capace di sostenere l’uso di marijuana. L’idea generale dunque è quella di un ritratto tragicomico di una (citando e storpiando Nicholas Ray) “gioventù bruciacchiata” romana, la stessa di cui canta il ruolo anche Michele Rech (il fumettista in arte noto come Zerocalcare) e che Vecchi & co. avevano già mostrato a spezzoni su YouTube e in televisione. Ma quello che The Pills ha, pur rimanendo stilisticamente e oggettivamente un non-film facilone e caciarone, è un cuore enorme nel descriversi. Vecchi, Di Capua e Corradini sono riusciti, anche con questa faciloneria (perfettamente integrata nel loro stile), a mostrarsi come facce ed esempi di un disagio attualissimo, di una vita in un mondo chiuso in sé stesso e irreale. E, da un punto di vista comico, c’è un po’ di tutto, con un alternarsi frenetico e privo di criterio tra pseudo-realismo e completo surrealismo, e ogni dialogo e ogni gag puntano a un’osmosi tra lo spettatore e il dramma esistenziale-sociale dei personaggi che tutto sommato riesce sempre, con espedienti vari, ad essere divertente, il che non è male. Ma la cosa forse più riuscita è la presenza di un sottotesto drammatico costante, che esplode nel finale, e che ha la funzione di semplice (semplicissima!) allegoria della vita, loro e nostra, di questo camminare in cerchio costante che è l’esistenza dei giovani disoccupati italiani che cercano di cambiare qualcosa ma rimangono nella loro pigrizia a non riuscire a fare niente, se non, al massimo, sognare, pianificare qualcosa che non esiste.
Sostanzialmente quest’allegoria è quella del mondo in bianco e nero, già attuata, ma mai spiegata per bene, nei loro sketch precedenti. Sin da quando sono piccoli, in un 1994 in cui tutto è sostanzialmente uguale (ma ci si tiene la mano e non si fa sesso, si mangia il parmigiano e non si sniffa la cocaina, si beve il succo e non la coca cola), giocano a rendere il mondo irreale in cui abitano ancora più irreale, cercando proprio di cambiare la realtà, renderla più drammatica e nel contempo più finta, come se fosse tutto un gioco; come se fossero ancora bambini e per sempre bambini. E l’idea conclusiva è che quel bianco e nero alienante del loro appartamento non è un bianco e nero mentale nel quale Di Capua, Vecchi e Corradini si chiudono, non è una collocazione geo-psicologica o un’allegoria per definire il loro sguardo, la loro vita: è un piccolo specchio, una piccola finestra che riflette sul mondo esterno, che tutto diventa un enorme, disperato bianco e nero, sotto le note di Questo grande amore de I Cani. E in questo finale cambio emotivo e visuale dell’intero film, anche lo spettatore più raffinato e critico, se un minimo riesce ad immedesimarsi nell’ingenuità in cui il film di Vecchi sprofonda, non può che avere qualche brivido e voltarsi verso chiunque sia venuto al cinema con lui, sussurrando, magari con un contagioso accento romanesco: “è troppo vero”.
Nicola Settis