L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA (2017), di Aki Kaurismäki
Sarebbe ancora oggi estremamente interessante potersi interrogare sul concetto di politica degli autori e forse sullo stesso senso di autorialità trasposto nella contemporaneità. Il rapporto con un puro e genuino canone stilistico e morale è ormai facoltà di pochissimi, probabilmente quasi solo di coloro che questa dialettica, legata alla creatività da una parte e alla propria visione del mondo e dell’uomo dall’altra, l’hanno formata oramai un quarto di secolo fa. Aki Kaurismäki, con le sue fiabe surreali di un’umanità impossibile, senza dubbio appartiene a quella schiera di registi riconoscibili al primo sguardo, che ormai non hanno più nulla da dimostrare, e che con granitica coerenza e sempre nuove intuizioni continuano a mostrare ostinatamente la loro prospettiva del mondo, in una maniera che forse, superficialmente, potrebbe apparire autoreferenziale, ma che al contrario rappresenta il senso stesso del canone a cui la vertigine della storia esige continuamente variazioni sul tema. Non è un caso che in questo Toivon tuolla puolen, ovvero The Other Side of Hope, in concorso alla 67ma Berlinale e a oggi di gran lunga principale pretendente all’Orso d’Oro, si parta proprio dal porto, come se fosse lo stesso di Le Havre, con gli stessi colori saturi, con gli stessi suoni tenui, con gli stessi uomini che si barcamenano per sopravvivere. Proprio come se la Normandia non fosse così diversa da una sorniona Helsinki, o almeno come se i confini fossero unicamente una questione politica, e mai esistenziale. The Other Side of Hope è il ritorno di Aki Kaurismäki in Finlandia per bacchettarla con sguardo amorevole e la solita ironia surreale e dolcissima, The Other Side of Hope è l’immersione di Aki Kaurismäki nella più pura contemporaneità di profughi siriani e necessità di accoglienza e cooperazione, dove però nemmeno la realtà più appuntita può interrompere la fiaba.
The Other Side of Hope è l’ennesima dolce parabola di due uomini apparentemente alla deriva, uno al porto ricoperto di carbone che viene dalla Siria e cerca asilo, l’altro autoctono e venditore di camicie che, prima di abbandonare il lavoro, abbandona la moglie costantemente ubriaca. Il primo viene dalla famiglia sterminata ad Aleppo e cerca la sorella ma dovrebbe, respinto, abbandonare la Finlandia, il secondo giocandosi tutto a poker riesce a racimolare un gruzzolo sufficiente per le sue intenzioni, ovvero acquistare e gestire una bettola ai margini della città, che vivrà di misere fortune. Ma, proprio come succede spesso con Kaurismäki, è proprio l’incontro tra (queste due) anime a far scattare la scintilla. Il mondo rappresentato, anche questa volta, non può esistere se non al cinema, proprio per l’estetica comportamentista (gli ampi spazi muti, le dinamiche comunicative, la reiterazioni gestuali) e per la sua oggettistica interna (macchine – anche da scrivere – anni settanta, gruppi che scimmiottano il rock più classico, arredamenti più che vagamente kitsch, le sigarette in bocca di chi cucina, le idee più assurde e l’immancabile cane), ma la società che viene rappresentata è terribilmente quella attuale, su tutti l’apparire continuo di skinhead che rappresentano forse il sentimento maggioritario da quelle parti, e non solo, verso i rifugiati. In questo panorama estremamente ristretto dai colori caleidoscopici, resi straordinariamente evocativi dalla grana 35mm con cui è stato girato e soprattutto, ormai merce sempre più rara e tanto gradita da essere di per sé commovente, mostrato alla Berlinale, è proprio il grottesco stratificato e l’uso di un impianto tragicomico a impostare la struttura della narrazione, e a rendere più leggero quello che apparentemente pare essere il lato più drammatico della speranza. The Other Side of Hope, appunto, è l’altro lato della speranza di chi deve cambiare vita, del profugo in fuga dalla guerra e del depresso in fuga dalla noia, un cambiamento impossibile fino all’incontro, finché non convergono le storie, eppure già anticipato da un rischio di incidente automobilistico. È la necessità di accoglienza, di aprire alle altre culture, anche a costo di pasticciare inventandosi di sana pianta un sushi fatto di cucchiaiate di wasabi per tentare di togliere il sale dalla “gran riserva” di aringhe sotto sale, e anche, a volte, di saper tornare sui propri passi.
Kaurismäki decide così di aprirsi ancora di più al contemporaneo e all’urgenza dell’oggi, rischiando sì di cadere in una retorica dell’accoglienza sempre più presente nelle tematiche autoriali, ma salvandosi da questo rischio rimanendo appunto nella sua sublime bolla di utopie e fiabe, in cui la società (e quindi la realtà) può essere messa a nudo senza intaccare un impianto narrativo sognante e sincero. The Other Side of Hope è un film piccolo che tratta tematiche molto grandi, forte di una potenza politica esplicita sottolineata dalle solitudini dei protagonisti (quella del primo a cui non importa chi sia stato a sterminargli la famiglia – Russia, Nato, Daesh? –, quello che conta è riunirsi almeno con l’amata sorella unica altra sopravvissuta, e quella del secondo a cui non importa reinventare di sana pianta il locale e cercarsi improbabili compagnie) che, proprio nel ritrovarsi nello stesso spazio e tempo, finiranno per unirsi in una comunità di gente che si aiuta a vicenda – emarginati, sì, ma non più soli. The Other Side of Hope è una favola, insomma, una misera ma necessaria rivoluzione contro l’indifferenza e la cecità dell’oggi, assurda come la comparsa della musa Kati Outinen che invita a un altro bicchiere, come la dedica ironica finale alle compagnie finniche produttrici di alcool, e quella ben più commovente all’amico di una vita Peter von Bagh – la cui mancanza, per noi tutti, è ancora difficile assai da digerire. Una favola ribadita in conferenza stampa, quando è stato lo stesso Kaurismäki a citare Renoir, parlando apertamente delle piccole/grandi illusioni a cui ci dobbiamo affidare per resistere. Nel finale, il migrante viene accoltellato, scompare per qualche minuto, torna e si accende una sigaretta abbracciando un gatto randagio. La fiaba vince sempre proprio perché siamo semplicemente uomini, ci è possibile ancora pensare, creare, raccontare e sognare. Kaurismäki, da vecchio profeta lo sa benissimo, e non perde l’occasione di invitarci a tutto questo. Il mondo di questo film inizia e/o finisce con il cinema, ma perché non ci dovremmo credere?
Erik Negro