THE OPEN (2015), di Marc Lahore

Qual è la vera follia? Giocare a tennis senza corde alle racchette né palline, simulando partite e normalità, oppure quello che sta fuori: la guerra, la distruzione, le macerie, il nulla interrotto solo dal roboare metallico dei motori dei cacciabombardieri? The open inizia quando le bombe sono già esplose, quando la guerra è globale e coinvolge tutti, quando i morti sono già migliaia e in continuo aumento, quando il mondo è semplicemente uno scacchiere di morte e non esiste più nulla, né le città, né gli affetti, nemmeno la musica che rimane custodita nell’ultimo mp3 funzionante fino a che non finirà anche quella batteria. L’immaginazione di un torneo di tennis senza palline non è una semplice via di fuga dalla realtà, ma un vero e proprio atto di resistenza, il combattimento di due uomini e una donna contro tutto il resto del mondo, in mano non più un’arma ma una racchetta. È una lotta contro la paura, è una lotta contro un mondo post-apocalittico, è una lotta contro la disumanizzazione, ultimo disperato aggrapparsi alla normalità, alla tenerezza, al duro allenamento, alla passione. Credere per sopravvivere, questo è il punto chiave di The Open, esordio al lungometraggio del giovane regista Marc Lahore che arriva in prima italiana in concorso al Trieste Science +Fiction edizione 2016. È fantascienza, è sport, è commedia amara, è melodramma, è una fiaba allegorica e filosofica, in cui a emergere è ancora una volta l’uomo, la passione, la vittoria, dalle eliminatorie alle finali di un Roland Garros che, in mancanza di una Parigi distrutta come il resto del mondo, si terrà nell’immaginario, su una spiaggia ai confini della Scozia, fra soli due giocatori. The open è il disperato ritorno alla natura, alle spiagge, ai prati; è un campionato di fantasia destinato a tenersi ai margini delle zone di guerra, sostituendo gli allenamenti all’addestramento, sostituendo i punti ai morti e alle bombe, sostituendo il sudore al sangue, sostituendo il sogno alla paura. È una metafora post-apocalittica e intimista, è un’allegoria della lotta contro la fine del mondo e dell’umanità che dall’attesa e dalla pantomima assurda di Beckett, passando attraverso l’estensione ricontestualizzata del finale dell’Antonioni di Blow Up, confluirà nella speranza, nelle emozioni più ancestrali, nella dedizione e passione che solo uno sport di testa ancor più che di fisico può dare. Il tennis è uno stallo alla messicana, è un duello, è la concentrazione sul colpo dell’avversario, è la risposta da elaborare in una frazione di secondo, precisa, potente, tattica, che sia un lungolinea sparato da fondo campo o la corsa folle per giungere in tempo allo smash.

La partenza di The Open è un messaggio ai suoi tifosi della grande tennista Stef, numero 4 al mondo WTA, registrato con il cellulare seduta accanto al fedele allenatore André – impossibile non pensare alla coppia d’oro del tennis Steffi Graf e Andre Agassi – dal sedile posteriore dell’automobile che avrebbe dovuto portarla verso l’albergo parigino dal quale sarebbe ripartita per provare a vincere il Roland Garros. Ma, proprio durante il bagno di tifosi, scoppia in lontananza la prima bomba, e il mondo che conosciamo è finito forse per sempre. La tappa francese del grande Slam significa per i protagonisti una ragione di vita, quello che sono, quello che amano, quello in cui credono, quello per cui si preparano giorni, mesi, anni, “ancora venti addominali”. È un torneo da organizzare e portare avanti comunque, costi quel che costi, prendendo le distanze da quel mondo che non esiste più a causa della guerra globale: “noi giochiamo a tennis”, anche senza racchette, anche senza palline, anche senza campi né pubblico. È il destino, è la vita, è ciò in cui credere, forse l’unico modo per continuare a vivere nel momento in cui i traumi hanno strappato nel modo peggiore gli affetti, la lucidità, la vita. Ed ecco che le lande scozzesi si trasformano in campi e promontori dedicati ai più grandi tennisti della storia, da Pete Sampras a Martina Navratilova, da Novak Djokovic a Roger Federer, da Andre Agassi a Bjorn Borg: zone dove allenarsi, giocare, migliorarsi, vincere contro tutto e contro tutti. Ralph, da tennista intorno alla posizione 900 del ranking, con la guerra è diventato un soldato semplice, distrutto dai suoi traumi, distrutto dalle sue paure. Verrà rapito dai due, e ben presto si unirà a loro, la racchetta e l’immaginazione al posto del fucile e della morte, capendo progressivamente come l’apparente follia sia l’unica difesa possibile contro la follia ben più grande di cui l’intero mondo, o quel che ne resta, è teatro probabilmente impotente. Ralph, dal naso storto davanti alle tattiche e alle partite simulate a parole dall’allenatore e dalla tennista, finirà per credere profondamente, come Stef e come André, fino al momento in cui quelli che inizialmente sono gli obblighi per assecondare un pazzo evitando ulteriori percosse, diventeranno anche per Ralph le ragioni di vita, un resistere disperato, un ritrovare quell’umanità che la guerra aveva distrutto lanciandosi anima e corpo nel Roland Garros dell’immaginazione, fino a chiedere a Stef la rivincita, questa volta immaginando l’erba londinese di Wimbledon. L’umanità emerge nei pianti, nel terrore quando passa un aereo, nel passato di Stef e in quello di André, nelle canzoni ripescate da una memoria che sembra ormai lontana e singhiozzate in un abbraccio quando anche l’ultimo lettore muore, e la musica non esiste più.

The Open è un film indipendentissimo che, pur soffrendo del budget ridotto, non rinuncia a una fotografia e a un audio curati, facedosi forza di un’immagine satura e contrastata che quasi ricorda l’Amir Naderi del recentissimo Monte e di un lavoro di cesellatura sui colpi immaginati fra il rumore della pallina invisibile e i gemiti di chi, racchetta senza corde in mano, ha sferrato il colpo. È un film ragionato e potente nel suo impianto allegorico, è un film che vive intensamente ciò che mette in scena, a tratti commovente nell’intimismo delle quotidiane visite di André alle tombe di chi ha amato più della sua stessa vita e che ora giace sotto un freddo cumulo di terra in corrispondenza di una pietra, o nella profonda umanità nei confronti dei traumi passati di Stef che lentamente emerge dalla scorza da duro dell’allenatore. Come un accenno di commedia e di cuore che arriva a squarciare un melodramma di sola disperazione, il rapporto fra i tennisti nasce, cresce e si cementa nei momenti di massima paura e disperazione, fino al momento in cui, all’apice della propria lacrimata umanità, isseranno il corpo ormai inerme di André sulla sedia sopraelevata dell’arbitro per consentigli di assistere alla tanto agognata finale e a quell’“invasione di campo” di Ralph per rincuorare l’avversaria durante una crisi di nervi, permettendole, rigorosamente senza lasciarla vincere ma anzi impegnandosi al massimo delle proprie possibilità per rispettarla, di mettere a segno il match point. Semmai, il principale limite del film è quello di girare troppo intorno alla stessa e unica, per quanto potenzialmente geniale, intuizione allegorica, finendo per stiracchiarsi nei suoi 104′ in troppe sequenze reiterate, progressivamente consequenziali nel portare avanti la trama cementando passo dopo passo la poetica ma in definitiva non sufficienti per giustificare un minutaggio che potrebbe tranquillamente essere di una ventina di minuti inferiore. Le piccole deviazioni dal percorso principale che il film percorre, dai fantasmi del passato che si ripresentano troppo abbozzati alle troppe partite immaginate fra allenatore e giocatrice, finiscono per tendere alla sterilità, e comunque per essere sempre troppo presto abbandonate dal regista, al quale, comprensibilmente, importa ben più la riflessione sul sogno e sullo sport come uniche armi contro la follia della guerra rispetto alle possibili altre possibilità metaforiche e concettuali offerte dai tre personaggi. Ma The Open, pur con le sue lungaggini narrative che si trascinano intorno a un concetto già perfettamente espresso nella prima parte, è un film d’esordio senza dubbio interessante, e sarebbe decisamente troppo severo pretendere dal giovane Marc Lahore una maturità autoriale già piena e complessa. Come sarebbe troppo severo imputarsi su qualche still non particolarmente efficace durante le prime partite fra i due tennisti senza piuttosto fare emergere per una messa in scena di paziente attesa che si contrappone all’estrema velocità del montaggio durante gli scambi, con molta macchina a mano – di cui è buonissimo operatore lo stesso regista – e con una cura per l’immagine di gran lunga superiore alla media delle produzioni indipendenti e low-budget. The Open è un film interessante e imperfetto, un po’ troppo lungo, un po’ troppo ancorato all’unica idea che persegue, ma l’impianto metaforico è ottimo, l’ambizione è tanta e tutto sommato compiuta, la regia è efficace, la sincerità è cristallina. È un film da difendere a spada tratta, da Antonioni alla pantomima del Teatro dell’Assurdo, dall’intimismo allo sport, dalla fantascienza post-apocalittica all’umanità finalmente ritrovata. Dando corpo al sogno.

Marco Romagna