THE ONDEKOZA (1981), di Tai Kato
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Una delle più gradite sorprese di questa Mostra del Cinema è stata senza ombra di dubbio il restauro dell’introvabile The Ondekoza (1981) di Tai Kato, un film che, sebbene sulla carta si possa definire come una sorta di un documentario sull’omonima compagnia teatrale-musicale giapponese, sfugge in realtà ad ogni stretta definizione di genere. L’approccio stilistico profondamente libero del regista va di pari passo con l’originalità del gruppo in questione: fondato nel 1969 sull’isola di Sado, The Ondekoza raccoglie con sé in breve tempo molti ragazzi per lo più senza formazione musicale di base che, sotto la direzione del fondatore Den Tagayasu, vivono assieme in una vecchia scuola, passando le giornate fra studio ed esercizio. La disciplina in cui gli Ondekoza hanno apportato le innovazioni più particolari è quella delle esibizioni coi taiko, i tamburi giapponesi: questa pratica viene concepita in tutt’uno con quella della corsa, parte integrante della routine quotidiana dei membri del gruppo, e i corpi temprati dei suonatori vengono esibiti apertamente durante le performance, a differenza di quanto prevedrebbe la pudica e cerimoniosa tradizione nipponica.
Il film si apre proprio mostrandoci queste corse mattutine, che inaugurano la linea più strettamente documentaria del film (presente in particolar modo nella prima parte, ma che poi ritornerà a più riprese nel corso dell’opera): assistiamo ovviamente a prove, riunioni e scene vita quotidiana, ma Kato ci stupisce continuamente inserendo sequenze geniali come quella della modellazione delle maschere, o l’intervista alla madre di uno dei membri del gruppo che esprime grossi dubbi sulle scelte di vita del figlio, o ancora la chiacchierata di alcune ragazze in merito al matrimonio e alle convenzioni sociali. Il vero piatto forte del film è però un altro: il regista rimette in scena svariate performance degli Ondekoza trasformandole in cinema puro, come in una sorta di Acto de primavera di de Oliveira in preda alle allucinazioni. Le trovate visive straordinarie sono praticamente infinite: abbiamo ad esempio una donna in carne ed ossa che interpreta una bambola del tradizionale teatro bunraku, con tanto di marionettisti che fingono di muoverla (quasi un Dolls ben prima di Kitano); una suonatrice di koto ripresa da sotto la superficie dell’acqua, per poi essere inquadrata mentre levita sopra di essa, su uno sfondo fatto di puro azzurro brillante e ciliegi in fiore. Ma le sequenze più incredibili sono sicuramente quelle dedicate alle esibizioni di taiko: i suonatori di tamburi appaiono come delle statue greche viventi, in continua tensione muscolare, ricoperte di sudore, mentre il pubblico viene travolto da un muro di percussioni travolgente ed adrenalinico.
Quello di The Ondekoza è un cinema libero da ogni convenzione, che passa attraverso a caleidoscopi cromatici e scenografici à la I racconti di Hoffmann di Powell e Pressburger, a montaggi dalle suggestioni pienamente ejzenstejniane, alle esplosioni stilistiche dei grandi della Nuberu Bagu come Terayama, Oshima e Suzuki. È un film tanto di sperimentazione quanto sulla sperimentazione, un folle inno alla creatività e al coraggio, riassunto in particolar modo nel finale: mentre gli Ondekoza corrono ancora un’ultima volta per le spiagge dell’isola di Sado, un sottotitolo ci dice per ognuno di loro cosa facevano o sognavano di fare prima di compiere l’eroica e definitiva scelta di entrare nel gruppo. Si respira uno slancio verso la libertà che richiama ancora una volta il finale de I 400 colpi (e di conseguenza anche quelli di quel folle di Sion Sono), con una disperata corsa verso il futuro, mentre i tempi avanzano, e la musica e il cinema con essi. Tutto questo in un film che si traduce in un’esperienza unica, delirante, indescrivibile e forse addirittura irripetibile.
Tommaso Martelli