THE ODD FAMILY: ZOMBIE ON SALE (2019), di Lee Min-jae
Sarebbe molto semplice, ma a conti fatti ingeneroso, leggere gli zombie coreani del The odd family: zombie on sale come una mera e divertita variazione comico-demenziale, innervata di romanticismo adolescenziale, sul tema del film di zombie. Certo, il tono è quello spassoso e (forse a tratti un filino troppo) nonsense di uno Scary movie che vuole buttare in caciara le moderne e non sempre convincenti riscoperte del genere, l’aspirazione è quella di affiancare all’Edgar Wright di Shaun of the Dead l’intuizione splendidamente asiatica del morso che prima di trasformarli in non-morti ringiovanisce gli anziani, e di certo, fra padelle, dentiere, calci volanti, cavoli, ketchup, chiavi dimenticate, bagni pubblici, stazioni di polizia, collanine hawaiane, guide manoscritte di sopravvivenza, tetti delle roulotte e improbabili innamoramenti fra giovani ragazze e morti viventi, il campionario di trovate più e meno irresistibili messo sul piatto dall’esordiente Lee Min-jae è pressoché inesauribile. È però nei sottotesti e nei riferimenti più impliciti che The odd family: zombie on sale, presentato al 21mo Far East Film Festival, trova e incanala la sua principale consapevolezza, con la quale si staglia di parecchie spanne, probabilmente anche al di là delle sue effettive ambizioni, sulla media contemporanea del genere. Una consapevolezza, tanto vale dirlo subito, che è ancora ben lontana da quella del giapponese Shinichiro Ueda che l’anno scorso proprio qui a Udine sorprese tutti con il suo teoricissimo e magnifico One cut of the dead, ma che anche fra le sue righe più ostinatamente e sguaiatamente cazzone si disvela al contempo cinematografica e, per quanto naïf, intenzionalmente politica. Quella di Lee Min-jae è una piena cognizione del mezzo, del genere e della sua funzione che emerge dalle citazioni più o meno esplicite di altri film (una sequenza di Train to Busan guardata dai protagonisti sullo schermo dello smartphone per cercare di capire che cosa diventerà il loro padre, ma anche le atmosfere e con le quarantene del The host di Bong), ma soprattutto è una consapevolezza che soffia sul fuoco di un ben preciso afflato anticapitalista rivolto direttamente alla più nobile tradizione degli zombie, capace di tenersi a metà strada fra l’omaggio cinefilo a George A. Romero, al quale siamo pronti a scommettere che questo film sarebbe piaciuto, e il rinnovarsi della sua presa di coscienza politica e sociale.
Non è certo un caso, in tal senso, che gli zombie nascano dagli esperimenti illegali compiuti sui senzatetto da una casa farmaceutica, così come non è certo un caso che sia l’ossessione per il denaro, con tanto di grotteschi business improvvisati e ritardi nelle fughe per recuperare la cassa, il principale motore comico che costantemente muove The odd family: zombie on sale. Allo stesso modo non è un caso che gli zombie siano, esattamente al pari di quelli “originali” di “papà” Romero, ossessivamente attirati dalla luce e dal rumore dei fuochi d’artificio, e non è un caso che il luogo deputato al (non) apocalittico attacco dei morti viventi sia, con la stessa identica funzione simbolica dell’originario centro commerciale, una sperduta stazione di servizio. Semmai la differenza sostanziale fra queste creature e quelle di Romero, al di là della completa rivisitazione del genere compiuta dal film coreano, sta nella cinetica dei morti viventi, non più lenti e inesorabili proprio come lento e inesorabile è l’incedere del Capitale nella visione romeriana, ma nemmeno rapidi e scattanti come in buona parte delle vacue rivisitazioni contemporanee che, da The walking dead in giù, ne tradiscono lo spirito trasformando una metafora in semplice mostro affamato di carne. A ben vedere, anzi, il relativo correre (o forse sarebbe meglio chiamarlo un buon passo) degli zombie in The odd family: zombie on sale è in un certo modo la prosecuzione della parabola delineata negli anni e nei vari Night, Dawn, Day, Land, Diary e Survival of the Dead dal “gigante buono” newyorchese, è il loro andare avanti sulla strada di una progressiva umanizzazione mentre è l’umanità a essere sempre più ambigua, fredda, asserragliata nelle sue posizioni di potere politico e ancor più economico. Ed è per questo forse che gli zombie di The odd family: zombie on sale sono al contempo vittime e colpevoli, da un lato creati e annichiliti dal capitalismo, privati di emozioni, sensi, identità e umanità per seguire l’odore del sangue e la fame di cervelli, e dall’altro disposti a pagare per farsi morsicare accecati dalle proprie brame di cupidigia e di (geriatrico) sesso fino a diventare la reale causa del propagarsi dell’epidemia.
È fatto di una serie di ribaltamenti, The odd family: zombie on sale. Da un lato c’è un primo ribaltamento della reale pericolosità dello zombie, o meglio Joong-bi, ritornato da morte dopo un esperimento sbagliato e “adottato”, dopo averne morsicato il decano, da una famiglia più che mai scombiccherata che cerca di far ripartire la vecchia stazione di servizio provocando incidenti stradali per poi riparare, a prezzi esorbitanti da pagarsi rigorosamente in contanti, le automobili danneggiate. Uno zombie atipico e di fatto innocuo, tendente al vegetariano, affamato di cavoli (magari conditi) ben più che di cervelli, i cui morsi portano il corpo delle vittime indietro nel tempo. Un mostro gentile da educare, sistemare e accettare a tavola, del quale magari innamorarsi d’un amore giovane, matto, pericoloso e (im)possibile. Dall’altro ci sono i continui ribaltamenti nei rapporti di forza dei componenti della famiglia, dove le donne dimostrano senso pratico e gli uomini, magari laureati, sono dei gran pasticcioni, tutti visceralmente attaccati ai soldi fra i sogni di capitalismo e quelli di fuga alle Hawaii, estorsori litigiosi ed equivoci, indecisi sul da farsi quando il padre si ammala ma immediatamente pronti a sfruttare i morsi dello zombie per ringiovanire (e ovviamente rinvigorire, perché è la virilità il punto debole dell’uomo), dietro pagamento di lauta somma, gli anziani del paese. E poi c’è il ribaltamento definitivo, quello del tempo di incubazione, dopo il quale i “nuovi giovani” si trasformano in mostri pronti ad asserragliare la pompa di benzina. In attesa del ritorno (dalle Hawaii, ovviamente) della «speranza», la cui immunità al virus potrà riportare, con un disgustato e divertentissimo morso alla putrefazione, gli infetti alla vita. Senza mai smettere nemmeno per un secondo, e neanche nella frenetica concitazione dell’attacco, di far ridere a crepapelle. Con coniglietti, rapimenti, furti di famiglia, equivoci, cartoline, vestiti di Joong-bi per dissimulare l’odore di vita, (apparenti) sacrifici, nascite nel peggior momento possibile ed esagerati sforzi per portare la cassetta dei soldi. Con bollitori e scope usati come arme improprie, con denti strappati e in qualche modo restituiti, con cortocircuiti elettrici e musiche che si fermano improvvise. Con poliziotti incapaci e soffiatori da giardino per gestire la coda di zombie, magari proprio mentre i giovani corrono nei campi di cavolo sottolineati nella loro assurdità dal romanticismo dei violini e gli spettacoli pirotecnici si innalzano nella notte, sotto le stelle. Non una grande idea, in genere, farli esplodere accanto a una pompa di benzina. Ancor meno se non ci si ricorda che gli zombie sono sensibili alla luce e al rumore, e si è da soli su un piccolo pick up.
Marco Romagna