Bastano circa venti inquadrature a Hong Sangsoo per donare al pubblico della Berlinale 2022 il suo ennesimo piccolo (capo)lavoro di scrittura, di regia e di camera. Un ventisettesimo lungometraggio, premiato con il suo quarto Orso d’Argento personale, con il quale tenere ancora una volta fede a se stesso, alle sue ossessioni e forse più che mai al suo cinema di canovacci e di piccole increspature emotive che crescono nel moto ondoso del quotidiano. Con The novelist’s film il regista coreano torna per l’ennesima volta a riflettere poeticamente sulla settima arte e sulla creazione artistica, e lo fa nella semplicità del suo modo sincero fatto di incontri casuali e di chiacchierate interminabili sul tutto e sul nulla, così vicine al vero che scaldano il cuore di chi crede ancora in un’umanità non automatizzata ma sempre e doverosamente per sempre animata dagli stessi piccoli bisogni di tutti i giorni come da quelli più grandi. La vita è fatta di noodle, di soju, di arte, di amori del passato e del presente, di progetti più o meno grandi, dalle frustrazioni accettate e di quelle che ancora si combattono e delle piccole rabbie della vita, stemperate dalla leggerezza malinconica di una sbronza in compagnia, immancabile topos dell’autore. Ma soprattutto è fatta di parole, e il risultato è un film dannatamente rohmeriano che dispiega sul campo di una cittadina sudcoreana il materiale umano di una giornata qualsiasi ma un po’ speciale («oggi è davvero una giornata strana»), quasi surreale se non fosse che tutto ciò che è nel regno del possibile è reale, anche le coincidenze continue e certamente bizzarre – destino o caso che sia – che portano la celebre scrittrice protagonista, interpretata da Lee Hye-Young per il secondo film in meno di un anno dopo In Front of Your Face presentato a Cannes 2021, a entrare in una libreria un po’ dimessa per far visita a una giovane ex collega. Da qui Hong si stabilizza su una camera per lo più immobile che mantiene quella distanza comfort per lo più di campi medi o al massimo piani americani che incorniciano i suoi personaggi in un quadretto rasserenante – raramente movimentato da uno zoom o una breve panoramica – e riprende con verità documentaristica senza (quasi) esserlo le poche ore che portano Junhee a maturare dal blocco dello scrittore un’idea creativa da tradurre per la prima volta in cinema. Di nuovo la figura del regista – in questo caso embrionale – e ancora una volta la metanarrativa di un’arte che riflette su se stessa e si insegue da sola per capirsi e celebrarsi in un film di poche azioni ma tante riflessioni, e un pugno di simili con cui condividerle perché la genuinità dei piccoli scambi intellettuali e quindi emotivi (o viceversa) è poi il sale della vita e il veicolo della bellezza. In fondo questo è il cinema e da questo nasce. Come quell’idea che balena nella testa della protagonista prima a livello inconscio a partire da quella frase che vuole a tutti i costi imparare nel linguaggio dei segni e che viene ripetuta all’infinito, fino all’esaurimento, fino a portare al riso e attraverso questo – quando non c’è più voce ma solo mani – a una coltellata di tenerezza che giunge come un fulmine a ciel sereno quando si comprende come questi gesti racchiudano in fondo il cammino umano: «C’è ancora luce, ma presto sarà buio. Fino a quando il giorno perdura, godiamoci una bella passeggiata».
Sarà proprio la voglia di fare una passeggiata a portare la donna sulla strada di quell’incontro al parco che dà in qualche modo una struttura circolare al film e lo spinge sui binari del metacinema quando, dopo la visita al museo e il ritrovo cordialmente scontroso con l’ennesimo regista, entra in gioco un personaggio interpretato dalla musa e compagna dell’autore. Di nuovo come nell’autobiografico On The Beach At Night Alone la sublime Kim Minhee è qui una famosa attrice ritirata dalle scene, ed è il trigger per superare l’impasse creativa di cui la romanziera – più anziano alter ego – parla di fronte a un piatto di noodles: la sua scrittura le sembra ormai «esagerata». Curioso che il termine usato sia l’esatto opposto della regia di Sangsoo, costantemente silenziosa, in disparte, dimessa, volutamente sottotono perché l’umanità si celebra da sola e non ha bisogno di orpelli ma solo di qualcuno che la riprenda, che la ricordi in film che sono testimonianza del tracciato sul mondo di quella bizzarra specie in continua evoluzione ma in fondo sempre uguale a se stessa. Ecco che il film diventa un’ode alla verità artistica e alla sincerità dell’artista (dovrebbe forse «fingere di essere una persona che ha sempre sentito queste cose?» – «No»), tanto più difficile in un’industria fasulla come quella cinematografica, ed è forse dovuta a questo la pignoleria di Junhee nella precisione con cui usa le parole come carisma e spreco… perché tutto ha un suo peso e tutto è una dichiarazione.
Ma ormai è deciso, la novelist girerà il suo primo film con Kilsoo, disposta a tornare in scena e con il marito – perché «è fondamentale che gli attori si sentano a proprio agio» per poter sinceramente svelare a una macchina da presa la loro reale intimità – e il nipote studente di cinema. Un film familiare, girato in pochissimi giorni e di fatto montato in macchina, con cui Hong strizza ancora una volta l’occhio in maniera immensamente esplicita alla propria stessa idea di cinema prima nel parco, al momento dell’incontro della scrittrice/regista con Kilsoo, e poi quando, tornate per puro caso nella libreria della scena iniziale, le ora quattro donne e un poeta si trovano di fronte all’immancabile soju della veritas (perché, come, dirà l’uomo «se bevo di più scrivo di più»). Di nuovo è intorno a un tavolo che avviene la magia, con Junhee che si lascia andare a una dichiarazione di intenti sul nuovo mezzo e sull’opera intima, familiare e vicina alla realtà tanto che non può che essere ispirata dai suoi stessi interpreti, non ci può essere creazione prima di loro. È in questo fluire di idee eccitate dall’alcool che si riconosce Hong, che si racconta come artista ma di riflesso anche come essere umano, attraverso la regista in nuce che ora se ne viene fuori con l’idea della sua opera prima di una quarantina di minuti. Un’idea semplice e quotidiana, racconto di un piccolo litigio amorevole intorno a un compleanno dimenticato, di una passeggiata al parco, forse proprio la stessa che ha scatenato la sua ispirazione. E come il poeta «scrive quello che vive», così in qualche maniera la suggestione registica della scrittrice anticipa senza saperlo quello che gli altri hanno vissuto, poiché quello che per lei è un episodio inventato è invece «realmente» accaduto alla futura protagonista del suo film.
Un cinema dunque di pura finzione ma ontologicamente para-documentaristico, come la meravigliosa scena finale che è davvero la passeggiata al parco tanto sognata all’inizio, e che adesso non è più gesto e auspicio ma è immagine. Quella in un bianco e nero di novanta minuti che vorremmo essere duemila, quella di Kilsoo/Kim Minhee che scherza tra le foglie con un bouquet di fiori in mano: uno sguardo d’amore in macchina in mezzo agli alberi ventilati in una pausa delle riprese (ma di quale film? Quello della novelist proiettato solo per la protagonista in una minuscola saletta coreana o quello che stiamo guardando ora noi – spettatori in questa ventosa serata berlinese? Forse poco importa: è la stessa cosa). «Stai girando in bianco e nero? Peccato, questi fiori sono così belli…», dice Kim Min-hee. E all’improvviso, come in una folgorazione, il colore. Che non è solo colore, ma è il colore come se fossimo stati ciechi prima, il colore che scopriamo come se non avessimo mai visto un mazzo di fiori in una ventosa mattina in un parco. È la magia del cinema, è l’ennesimo ti amo che Songsoo porge dolcemente alla sua musa, e che il pubblico raccoglie e fa suo. Ora documentario, documentale, ma non per questo più vero della verità della finzione. E poi il nero, dove anche i titoli di coda appaiono ormai superflui. Vita, arte, finzione, verità, è tutto lo stesso calderone. Non servono parole, non servono neanche i gesti. Forse basta solo passeggiare in un parco. Perché presto sarà buio, è vero, ma per adesso c’è ancora tanta luce.
Bianca Montanaro