«Nella speranza di catturare il silenzio, l’odore e le fiabe, porto con me la luce del cinema». Un (meta)cinema attraverso il quale, sin dalla dichiarazione programmatica con cui il mozambicano Inadelso Cossa ritorna agli anni Ottanta e (metà) Novanta della Guerra Civile, mettersi disperatamente alla ricerca di una memoria oramai sempre più labile e fuori fuoco, riallacciarne i brandelli e le contraddizioni, ripercorrerne, se necessario fino a rappresentarle in un’aperta finzione con un ramo fra le stesse mani che tenevano la baionetta, le cicatrici più profonde. Un (meta)cinema che è unico possibile metodo di indagine, storica, personale e poetica, attraverso cui interrogare apertamente i fantasmi del recente passato, la paura mai del tutto scomparsa dal fondo degli occhi, la violenza che ancora scorre subito al di sotto della pelle di chi l’ha vissuta, come un’eredità di disperazione e di dolore impossibile da sradicare e con la quale sembra che i tempi non saranno mai abbastanza maturi per poter fare definitivamente i conti. Un (meta)cinema che è riappropriazione, dei ricordi sfumati e da estrapolare prima che scompaiano del tutto nella nebbia di una nonna ormai alle prese con i primi sintomi dell’Alzheimer, di quelli di un ex-combattente ribelle incontrato lungo la via, e poi di quelli di un bambino ormai diventato regista, a cui si tentava di addolcire l’orrore dicendogli che il boato delle mine antiuomo doveva necessariamente essere un qualche fuoco d’artificio poco lontano. È per questo che è un film così smaccatamente personale As Noites Ainda Cheiram a Pólvora – in titolo internazionale letteralmente The nights still smell of gunpowder, “Le notti ancora odorano di polvere da sparo”. Un’opera seconda, presentata nel Forum della 74ma Berlinale, con cui Cossa mette a confronto il personale (e intimo, e affettivo) della propria famiglia con l’universale della Storia, una parte con l’altra nella convivenza fra ex-nemici del FRELIMO e del RENAMO, l’immagine d’archivio con il presente, la verità con la finzione, la precisione dei ricordi atroci di The Act of Killing con una ricerca di ombre e lirica da qualche parte fra Vitalina Varela e Lo Zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti. Le radici culturali, e quindi identitarie, che non possono prescindere dai secoli di colonialismo portoghese – al quale non è certo un caso che il film guardi per linguaggio, voci ai limiti del campo, figure che emergono dal buio, ritmo compassato ed elegante ieraticità – con le ferite mai del tutto rimarginate sulle quali il Mozambico, volente o nolente, si è plasmato nella propria definitiva emancipazione. Ma anche l’atto stesso del fare cinema con la ridefinizione del suo senso: un cavalletto a terra, il boom di un microfono in spalla, una troupe ridottissima, qualche proiettore con cui tentare di fendere il buio della notte – e della memoria, e della Storia.
Già, la Storia. Quella Storia ormai così pericolosamente vicina alla rimozione, e proprio per questo così fondamentale da recuperare negli occhi, nelle parole e nei gesti di chi la porta dentro di sé. Quella Storia – e qui facciamo un necessario passo indietro, se non altro a livello di contestualizzazione – che sin dal 1974 dell’indipendenza vide il Mozambico socialista/internazionalista di Samora Machel e del FRELIMO diventare sempre più un punto di riferimento nella lotta anti-apartheid dei Paesi vicini, dando rifugio ai patrioti neri sudafricani e di quella Rhodesia che di lì a poco, nel ’79, sarebbe diventata lo Zimbabwe marxista. Una posizione internazionale via via sempre più invisa al razzismo tanto africano quanto occidentale, tanto che nel ‘77 i governi bianchi dei due Paesi rivali, con la collaborazione dei ‘soliti’ Stati Uniti sempre ben felici di destabilizzare uno Stato tanto più se apertamente schierato con l’allora blocco sovietico, decisero di finanziare in Mozambico uno spietato contro-esercito interno di ribellione anticomunista, il RENAMO, trascinando il Paese in oltre tredici anni di lotte interne, di mine antiuomo e di ripetuti massacri sui civili. Un conflitto da un totale di circa un milione di vittime, quasi tutte non belligeranti e in gran parte donne e bambini, in cui lo stesso Samora Machel, nel novembre dell’86, rimase ucciso in un incidente aereo dalle circostanze troppo misteriose per non destare sospetti (anche di Nelson Mandela, che fra i primi atti del suo governo post-apartheid cercò pur senza successo di fare luce sulle circostanze di qualche anno prima) su un possibile coinvolgimento del regime sudafricano, e che finì per protrarsi ancora qualche anno dopo gli accordi di pace di Roma del ’90 entrati in vigore nel ‘92, con la trasformazione della Repubblica Popolare in Repubblica democratica e con FRELIMO e RENAMO a continuare a darsi battaglia ma in Parlamento, senza più armi ma con la dialettica, come partiti di maggioranza e opposizione. Del resto a dirla tutta lo stesso FRELIMO, dopo la caduta del Muro, è sempre rimasto il primo partito ma ha optato nel frattempo per una svolta decisamente liberale, con la richiesta di entrare nel Commonwealth e le alleanze con Stati Uniti e Portogallo mentre il Paese ha investito nel turismo di lusso lasciando i villaggi e le baraccopoli nella povertà più totale, ma non è un discorso prettamente politico ciò di cui si mette alla ricerca The night still smell of gunpowder. Quello che interessa a Inadelso Cossa è semmai al contrario elidere del tutto le residue distanze fra una parte e l’altra, non tanto per chissà quale volontà di essere equidistante, ma per riguardare indietro dalla consapevole precarietà dell’attuale punto di equilibrio senza bisogno di buoni e cattivi, né di trovare necessariamente colpevoli fra le vittime innocenti.
Il risultato è un viaggio fra brandelli di memoria e tasselli mancanti irrimediabilmente perduti nel quale farsi raccontare ancora una volta del massacro al villaggio perpetrato sì dai ribelli del RENAMO, ma questo solo mentre l’esercito del FRELIMO, che aveva dato il via libera ai civili per rientrare nelle case, non solo non era stato in grado di allontanare realmente il pericolo della fazione nemica, ma non aveva nemmeno ritenuto opportuno presidiare la zona e proteggere i cittadini. Oppure in cui rimettere in scena le tattiche militari di un ex-combattente ribelle che affoga ogni giorno i suoi traumi nell’alcool, e che pure nelle dinamiche familiari con la moglie continua a portare addosso i segni indelebili di quei tempi e di quelle prevaricazioni, carnefice eppure vittima, di un momento storico e di se stesso. O ancora in cui guardare ai bambini di oggi e agli adulti di domani, nati e cresciuti in un Paese non più in guerra, eppure a loro volta costretti a portare sulle spalle i pesi atavici delle generazioni passate, a sentire nelle narici quello stesso odore di polvere da sparo che, metaforicamente, ancora serpeggia nel buio di ogni notte fra gli anfratti più oscuri di un Paese ancora sanguinante. È per questo che quello che più conta è mettersi tutti intorno al fuoco e raccontare, la Storia e la storia, il ricordo nitido e quello sfocato, la realtà e la fiaba in cui nascondersi per sopravvivere, il sogno e l’incubo. Per affrontare insieme e tentare finalmente di superare il dolore, per ritrovare un senso (im)possibile di comunità sacrificando e nutrendo intere famiglie con un capretto, e non certo in ultimo per salvare dall’oblio gli ultimi lampi di memoria dell’amata nonna, per scoprire dalle sue parole ormai confuse le antiche usanze di seppellire gli averi e i piatti con i cari estinti, per portarle alla mente un’ultima volta la morte del nonno su una mina, mentre passeggiava insieme a un’altra moglie e solo il caso ha voluto che a morire al suo fianco non fosse proprio lei. Un film che usa la macchina cinema per inoltrarsi nelle ferite più profonde di un Paese e nell’impossibilità di metabolizzarle, nella concretezza di un’epidemia e nell’affascinante astrazione di una danza, nel simbolismo di una fotografia nel nulla e nel ricordo tangibile di un negozio da tenere aperto in barba alla corruzione e ai divieti. Nella poesia intrinseca di una nonna che guarda amorevole il nipote anziché la macchina da presa e nel metacinema che lascia in montaggio i motivi, umani, per cui la scena è da ripetere. Nelle immagini sgranate d’archivio che cercavano solo un contesto per tornare a parlare e nei tramonti sulla savana da attraversare all’orizzonte. Nei dialoghi con il fonico che teme possa esserci ancora qualche mina sotterrata nel campo del quale ascoltano le mille voci del silenzio, e nei luoghi da ritrovare e da esplorare ben al di là dei cinque sensi. Perché è nei luoghi che si annida e rimane intrappolata la memoria, e solo il cinema può catturarla e renderla di nuovo racconto, ipnosi, sentimento, emozione tangibile. Senso. «Verità a 24 volte al secondo», avrebbe detto Jean-Luc Godard.
Marco Romagna