THE NIGHTS OF ZAYANDEH-ROOD (1990/2016), di Mohsen Makhmalbaf
Pensare a quella sottile linea che attraversa la storia e si spinge fino alle estreme conseguenze nell’identità di un popolo, appare oramai desueto quanto necessario. In questa prospettiva, perennemente astenica, anche ventisei anni possono essere nulla nell’ottica lineare dell’evoluzione del sistema di vita di una società, ma infinitamente lunga per un uomo che cerca la carcassa di una sua opera dispersa, di qualcosa per cui aveva intimamente sofferto nel dare vita vita. Nel 1990 Mohsen Makhmalbaf gira Shabahaye Zayandeh-rood, Le notti di Zayandeh-rood, un altro film controverso e contraddittorio legato inscindibilmente alle vicende del proprio paese. Il film fu proiettato solo una volta (proprio in Iran, al festival di Fajr), in una versione già ampiamente rimaneggiata dalla censura di oltre mezz’ora, e successivamente fu sequestrato definitivamente (anche il negativo) con l’arresto dell’autore, perché lui e la sua opera avrebbero rappresentato una minaccia ideologica allo spirito e al messaggio della rivoluzione khomeinista. Così, dopo un quarto di secolo, sarà lo stesso Makhmalbaf a cercare e trovare quei sessantatre minuti rimasti e sopravvissuti del film – originariamente oltre i 100′ – per farne una nuova copia digitale; un figlio amputato di braccia e mani, ma pur sempre un figlio da abbracciare per ritrovare il proprio passato.
Il film segue le vicende di un professore e della sua famiglia, una moglie dolce e devota e una figlia pensierosa e malinconica, arroccata sul dolore d’amore. Siamo nel 1979, e la rivoluzione appare ancora lontana a venire: l’autunno scorre lento e ripetitivo ed il docente di antropologia interroga continuamente la classe sull’identità culturale del proprio popolo. Si parla costantemente di violenza e della propria radice delegittamata/nte all’interno dei processi di evoluzione sociale nei regni del medioriente. Non prende posizione, il suo è un invito al senso di libertà e partecipazione, autodeterminazione e responsabilità di cui un popolo necessita per poter guardare alle possibilità di un futuro. Ma evidentemente, per lo scià, abusa comunque della sua posizione: viene arrestato e torturato, fino a quando una sera viene investito con la moglie (casualmente o forse no) da un’auto, tra la folla indifferente che li circonda. Lei non ce la farà, lui si, ma da paralizzato sarà costretto dalla sua finestra a osservare quella rivoluzione che ben presto si rivelerà un altro canto del cigno per la stessa possibilità di un Iran democratico.
In questo quadro così drammatico e disincantato emergono elementi che stigmatizzano ancora di più la deriva di questo percorso. Un ospedale dedito unicamente al salvare i tentati suicidi, l’interrogarsi continuo della gioventù sul ruolo sociale dei due sessi in questa provvisorietà, la crisi di qualsiasi diritto personale a favore di una cultura di stato totalmente debita agli ideali khomeniani. Tornerà in aula quel professore, arreso e sulla soglia della sconfitta, al cospetto di una realtà definitivamente compromessa dalla guerra, da quella stessa violenza che aveva cercato di criticare e divenuta oramai ortodossia di controllo e repressione. Quella finestra a cui si affaccia è solo il luogo in cui gettare la disperazione per una società sempre più cieca e indifferente, gettare lo strazio della moglie lasciata morire dal popolo per strada, gettare i fogli di anni di studi e speranze, in una scena dal profondissimo impatto emotivo purtroppo muto, perché una delle tante a cui la censura ha tolto la voce, tagliando la colonna audio. Ma a volte dice più un silenzio di mille parole. Rimane così la figlia che finirà a lavorare in quell’ospedale surreale, darà speranza ad un ragazzo anch’esso paralitico ma sarà ancora confinata nella scelta tra due amati. Pare scegliere l’altro, ma nel finale – anch’esso orrendamente mutilato – lei scompare; nella scena oramai vuota e desolata compaiono sulla riva del fiume i passi di colui che per amore è riuscito a rialzarsi. Sono passi faticosi, stanchi e tristi, passi senza una meta ma forse gli unici possibili anche per questo popolo.
La storia è un gioco al massacro di mancanze, quelle che ci negano la visione completa di quest’opera e allo stesso tempo le stesse che attraversano queste figure nel paesaggio così lacerate da pulsare nel tentativo estremo di redenzione comune. Nella sua vita, da uomo prima che da intellettuale, Mohamed Makhmalbaf è stata una figura chiave per l’Iran prima, durante e dopo la rivoluzione e proprio per questo perseguitato sia dalla monarchia autoritaria sia dal regime degli ayatollah. Proprio per questo desiderio di personalissima resistenza alle forme di controllo sociale che si appellano a un ordine superiore (il culto di un re, come di un dio) trascende lo stesso personaggio del professore, e lo accompagnerà successivamente con lo stesso spirito di coraggiosa impossibilità della propria nazione. Lui, con Kiarostami e Naderi, nascondono le radice più pure e libere di una cultura sconfinata ed antichissima, che oramai a nulla pare più potersi appellare nel tentativo sempre più vano di un’emancipazione. Infatti per loro la discriminante sociologica alla base di queste continue derive è proprio il substrato culturale continuamente corroso dalla struttura dominante, ovvero l’incapacità di un popolo davanti a ogni possibile spazio di emancipazione a favore di un’accomodante posizione apatica e violenta.
Memoria e memoria ancora, che si struttura alla comparsa di qualsiasi fotogramma ritrovato, che riflette la carne viva dell’essenza di vedere cosa non c’è più; lottare per un’immagine è lottare per un’idea, una speranza, un figlio appunto. La provvisorietà del vedere è ciò che muove le nostre azioni, ciò che ci invita a pensare continuamente all’istante in cui una dialettica è doverosa, nella notte della ragione in cui solo noi possiamo salvarci dai (nostri stessi) mostri. Perché l’immagine è proprio lì, un tribunale invisibile che ci convoca a render conto di quello che noi siamo degni di fare per chi non c’è più e per chi ci sarà, senza mai rischiare la cecità e il buio della guerra; senza mai fermarci davanti alla mutilazione di un film, come di un membro, come di una cultura; senza mai illuderci di poter conoscere il falso dal vero, il giusto dallo sbagliato. Poco dopo essere stato rilasciato, il professore urla in strada “Bevo Coca Cola, dunque sono!” E così, ciò che appare alla prima visione del corpo martoriato di questo film straordinario è un grido disperato di una generazione di autori, che al nulla hanno spesso preferito il dolore. Fanno cinema, dunque sono.
Erik Negro