Dipenda o meno dalla natura programmaticamente low-budget della manifestazione, ad accomunare la variegata selezione del Trieste Science+Fiction Festival sembra essere finora una riflessione sull’etica della solitudine e sui dilemmi dell’individualismo: se nelle ospitate, si fa per dire, “di lusso” riservate ai blockbuster d’Oriente e Occidente l’idea finisce per risolversi rispettivamente nel canone ormai abusato dell’action tecnomessianico (il coreano The Witch: Part 1. The Subversion, sorta di mal orchestrato incrocio tra l’immaginario televisivo Marvel à la Legion e il Na Hong-Jin più sovraccarico e autoindulgente) e, nel caso di First Man – Il primo uomo, della stracca, gratuita e sminuente celebrazione, mutuando le parole di Nicola Settis, di quel “self-made man” illuminato dalla luce acritica e condiscendente di questi “anni trumpiani”, è fra i titoli in competizione per il Méliès d’Argent che si trovano gli esempi più virtuosi di questa tendenza, espressa attraverso le sfide offerte dal linguaggio del cinema solipsistico. Non si pensi, tuttavia, allo sterile e alla lunga mortificante esibizionismo dei film-scommessa a cui la produzione di genere dà l’impressione di essersi a mano a mano rassegnata, come dimostrano i nostrani recentissimi casi di Mine e di The End? L’inferno fuori, a giudicare dai quali le regole imposte dalla restrizione totale del campo d’azione a un unico ambiente e a un solo effettivo protagonista dovrebbero essere a prescindere un merito in grado di giustificare qualsiasi lacuna sul piano della scrittura e della messinscena. Nel caso del francese The Night Eats the World (e, in misura minore, del britannico Peripheral) a venire in mente sono le espressioni più felici di quella poetica dell’isolamento comune a tante, diversissime, pellicole di rilievo dell’ultimo lustro, da quella sinfonia dello sciabordio che fu All Is Lost alle peregrinazioni limbiche di Tripoli Cancelled, passando per lo psicodramma da cruscotto di Locke e per l’eremo demoniaco di The Alchemist Cookbook. Questo perché l’esordio di Dominique Rocher è un oggetto assai più raffinato e sottile di quella “versione arty di Io sono leggenda” come lo si è voluto frettolosamente bollare: non l’ennesima declinazione romeriana sulla valenza socio-politica del topos dei morti viventi che, a mezzo secolo da Night of the Living Dead, ha probabilmente esaurito le cartucce, bensì l’occasione per affrontare un discorso assai meno a prova di tempo sull’alienazione del singolo al cospetto di una società in cui l’errore si è fatto norma, e in cui l’unico modo per rimanere sani è tenersi stretto quel poco di umano che ci è rimasto.
Ecco quindi, con la dovuta distanza, che la definizione migliore per descrivere la routine dell’unico superstite di una inspiegabile apocalisse urbana rimasto confinato nel suo caseggiato definitivamente sfitto è forse quella di un “Ferro 3 con gli zombi”, un aggirarsi inesorabilmente silenzioso, sempre uguale, fra i luoghi dove, fino a poco prima, c’era la vita, alla scoperta, di stanza in stanza e di appartamento in appartamento, di quei momenti e di quegli oggetti insignificanti e preziosi che costituivano la più autentica parte di noi. Un’idea capace di funzionare meglio se il nostro personaggio di riferimento non è il classico eroe salvifico in lotta contro l’orda o allo studio di una cura per debellare l’epidemia, ma un soggetto – e lo mette immediatamente in chiaro un incipit che pare ribaltare quello di Cloverfield – fondamentalmente introverso, quando non apertamente misantropo, a cui l’eventuale estinzione del genere umano non fa né caldo, né freddo. Di conseguenza – ed è qui che risiede la novità di fondo di un soggetto ai limiti del basilare – The Night Eats the World va visto come uno studio di carattere sul manifestarsi della depressione e sul suo superamento, come la messinscena di un conflitto evidentemente interiore in cui il fenomeno zombesco è poco più di una contingenza, o anzi al contrario l’unica forza di reazione, come dimostra l’assurdo legame che il protagonista instaura con la sola altra presenza tangibile del condominio, un vicino di casa ormai infetto cui presta il volto Denis Lavant, azzeccando, peraltro, la trovata di confinare per tutta la durata l’interprete più fisico e incontenibile del cinema francese di oggi all’interno del gabbiotto di un ascensore fermo. Così, dietro la preparazione metodica di una roccaforte e la pianificazione strategica di una reclusione a lungo termine, dietro le azioni più o meno necessarie per garantirsi la sopravvivenza, dalla gestione degli approvvigionamenti alla reinvenzione degli spazi – memorabile la sequenza della sessione di jogging al ritmo di Buonasera signorina di Buscaglione -, dai passatempi come rimedio all’insorgere della pazzia alla ricerca di altri possibili sopravvissuti, come riassume l’emblematica sequenza del fallito recupero del gatto randagio, dietro tutto questo, insomma, si nascondono le fasi di un progressivo decadimento psichico, che i prolungati silenzi, la fissità delle inquadrature, la reiterazione dei gesti e le repentine parentesi di euforia a cominciare dalle frequenti performance musicali in solitaria, rendono con un atteggiamento che sulle prime può apparire prettamente cerebrale, ma che sulla lunga distanza è capace di pagare davvero in termini di originalità e di approccio al genere.
Si ritorna all’essenziale, dunque, inThe Night Eats the World, senza alcuna necessità di spiegare le origini del contagio, senza alcuna necessità di conferire al branco caratteristiche diverse da quelle del modello convenzionale di “cadavere ambulante”, senza alcuna necessità di puntare sui componenti più elementari della paura e del raccapriccio (jumpscare e gore in primis), per privilegiare una dimensione totalmente psicologica e realistica in cui il tedio si fa consapevole e giustificata misura espressiva, e in cui anche i pochi dettagli implausibili – c’è davvero ancora chi va in giro con walkman e musicassette nel 2018? – sono volti allo svolgimento di uno studio introspettivo preciso e sentito con cui Rocher, prendendo notevolmente le distanze dal romanzo di Martin Page da cui trae spunto, ha di certo riversato molto di sé. Sono sufficienti poche e rade parole, per ragionare sul genere e sulla paura, e quando il meccanismo, con l’ingresso in scena di Golshifteh Farahani in qualità di prevedibile love interest, sembra incepparsi e far rientrare la storia nei canoni con ciò che pare essere l’inevitabile risoluzione in chiave rom-com, il film sfodera il suo più efficace colpo di coda, un ribaltamento che, senza ricorrere a clamorosi effettismi à la Shyamalan, fa piazza pulita di ogni facile tentazione consolatoria o forzatura di scrittura, buttandoci, con una decisa impennata finale e con un letterale salto nel vuoto, in un’indeterminatezza che non ha nulla né di biecamente disperato, né di gratuitamente ottimistico. Solo la constatazione del fatto che in uno skyline dove la Torre Eiffel e l’Hôtel des Invalides hanno perso ogni ragion d’essere c’è una miriade di case tutte uguali di cui non sappiamo nulla e che probabilmente ospitano altrettante persone nelle nostre medesime condizioni. Basta sapersi lanciare verso l’ignoto.
Andrea Bosco