IL PRIGIONIERO COREANO (2016), di Kim Ki-duk
Si è più volte parlato del “buco” di Venezia come di una sorta di simbolo della decadenza di un Festival profondamente amato eppure ormai problematico, troppo impegnato a inseguire (con l’ausilio, ahinoi, del binocolo) le paillettes di Cannes per ricordarsi di essere la prima – per fondazione, quantomeno – kermesse cinematografica al mondo. Eppure, quest’anno, qualcosa parrebbe muoversi. A partire da una selezione, quantomeno sulla carta, nettamente superiore a quelle degli ultimi anni (per quanto siano troppo marcate nelle nostre memorie le sfavillanti edizioni targate Marco Müller per accodarci a chi grida al miracolo) e probabilmente la migliore dell’annata fra quelle dei grandi Festival – complici una Berlino tutto sommato debole e una Cannes più avara rispetto al solito di colpi al cuore. A questo proposito, non possiamo che prendere come ulteriore ottimo auspicio anche il fatto che, in Lungomare Marconi al Lido, il famigerato “buco” grondante amianto non ci sia più, finalmente coperto dal brillante cubo rosso della neonata Sala Giardino. Una tensostruttura che indica il primo vero tentativo di rivalutazione dell’area pietra dello scandalo dopo 7-8 anni di totale immobilismo e di ferite aperte accanto al Palazzo del Cinema, inaugurata – seppur con il ritardo dovuto agli ancoraggi di qualche fila di poltroncine ancora da stringere – con un grande nome, quello del sudcoreano Kim Ki-duk, già Leone d’Oro nel 2012 con Pietà ma attestatosi ben prima, e con film nettamente migliori fra i quali spiccano Birdcage Inn, Ferro3 e il suo (capo)lavoro forse più noto Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera, come firma fra le maggiori di tutta l’Asia contemporanea. Ma il cinema di Kim Ki-duk, da quei tempi, è molto cambiato: non c’è più – o quantomeno è declinata in maniera molto differente – quella poetica straziata e crepitante umanità di puttane e pesci rossi, di baci proibiti e fasi della vita, di monaci e sognatori; non c’è più quell’immagine perfettamente pulita, definita, “bella”, sostituta da uno stile più grezzo e istintivo, nervoso e bruciato, ma non per questo meno curato; non c’è più la costanza dell’autore, perché questo finalmente buono – pur senza eccessivi entusiasmi – The net, “La rete”, arriva dopo un evidente e pluriennale calo culminato in almeno 2 o 3 film totalmente sbagliati, tali da allontanare Kim dalla considerazione degli addetti ai lavori e da quella di una critica probabilmente troppo frettolosa – non ci sottraiamo alle nostre colpe – nel bollarlo come bollito, o quasi.
Per approcciarsi a tutti i film della seconda e altalenante fase del regista, odivago viaggio fra copie sbiadite del suo cinema precedente (Pietà), giocattoloni forse vacui e provocatori ma senza dubbio riusciti perché sinceramente divertenti (Moebius) e veri e propri passi falsi come One on one e Stop, ma non possiamo non citare anche il retorico e malcostruito Red Family scritto da Kim Ki-duk e fatto girare allo “scudiero” Lee Ju-hyoung, non si può prescindere da un episodio fondamentale della sua biografia. Una sorta di meta-episodio, se così lo vogliamo chiamare, punto di rottura nella vita dell’autore coreano e del suo cinema nato proprio dalla vita sul set. Era il 2008, si stava girando Dream, racconto d’amore, poesia, sonnambulismo, sogno e simbiosi pronto a esplodere nel volo di una farfalla, quando per uno stupido errore di calcolo la scena del suicidio dell’attrice per impiccagione stava finendo per diventare “troppo realistica”, con l’intervento – dicono le leggende – dello stesso Kim Ki-duk a salvarla solo un attimo prima che fosse troppo tardi. Da questo momento, faccia a faccia con l’omicidio preterintenzionale, la più cupa delle depressioni si è impossessata del regista, e con lei sono arrivati la (temporanea) decisione di Kim di chiudere con il cinema, il suo eremitaggio, la sua crisi personale e artistica. Fino alla necessaria sublimazione in nuove immagini, appunto questa seconda fase, inaugurata con il meraviglioso autodocumentario Arirang, pronto a mostrare a Cannes 2011 la vita ascetica di un uomo che stava provando a reagire, ma era ancora lontano da rialzarsi. Un film unico, sofferto, oggetto quasi alieno nella sua filmografia eppure apice della stessa, in un climax emozionale e lacrimato erto a evidente e inevitabile punto di non ritorno. Prima il trauma, poi la depressione: complice anche il passaggio dal 35mm al digitale della reflex Canon Eos 5D, il cinema di Kim Ki-duk è diventato più sporco, sofferto, provocatorio, mentre anche le tematiche hanno progressivamente allentato la poetica straziata dei primi film per inoltrarsi piuttosto nella violenza, nell’incomunicabilità, nella crisi come oggetto stesso di indagine. E ora, dopo le “brutte copie” con i nordcoreani di Red Family e i paramilitari di One on one, il regista si tuffa di testa nella politica delle Coree divise, opposte eppure identiche. Fino a interrogarsi sul valore stesso di libertà, in un film politico e di (auto)denuncia, lucido quanto necessariamente schematico.
Con The Net, distribuito in Italia da Tucker Film con il titolo Il prigioniero coreano, il “nuovo” e forse finalmente definito Kim Ki-duk ruggisce, sbatte in faccia allo spettatore le ossessioni e la follia fratricida delle due Coree, crea un paradigma necessariamente slabbrato e ripetitivo, atroce, sghembo, di quanto l’unica vera e insormontabile gabbia sia quella creata dalle ideologie. Quella messa in scena, nell’odissea agonizzante di Nam Chul-woo, pescatore nordcoreano di confine che per un guasto al motore finisce inesorabilmente verso sud, è la necessità di capirsi, in un film politico e volutamente didattico che mai sconfina nel didascalico o nel retorico fine a se stesso. La rete del titolo è quella che si impiglia nell’elica della barca, ma anche le gabbie delle strutture militari, e nondimeno le fitte maglie della giustizia a orologeria, fra la polizia corrotta e quella ligia al dovere al di là della ragionevolezza, mentre la politica non vuole far rientrare un uomo “sotto la dittatura” ma non si fa problemi ad estorcergli confessioni legandolo e colpendolo alla testa con un posacenere. Kim Ki-duk denuncia l’ambiguità di un paese libero nel quale a governare è il denaro, con tanto di prostitute che devono vendere il proprio corpo per mantenere la famiglia: qual è la vera libertà? Quella nominale, o forse la felicità interiore, anche se con i vestiti logori e le foto dei Kim appese in salotto? E poi, dall’altra parte del fiume, si torna a una polizia che si comporta nello stesso modo dei dirimpettai, a cercare i cedimenti nel patriottismo del reduce per essere stato nel sud “corrotto”, fino a che non spunteranno dei dollari – simbolo stesso del capitalismo e della corruzione – a mettere magicamente tutto a tacere. Forse, perché il ritorno alla normalità a volte è semplicemente impossibile, quando di mezzo ci si mettono le armi. The net sono le torture, le percosse, la necessità di creare una spia anche a costo di distruggere un innocente perché “tutti sono spie potenziali”. The net sono le confessioni per iscritto, le proposte di diserzione per vivere nel Sud capitalista, i continui rifiuti per non abbandonare la moglie e la figlioletta. Il prigioniero coreano è il passato militare del pescatore, la sua abilità nel corpo a corpo, ma anche i soprusi più forti della capacità di combattere. O forse l’inutilità stessa del combattimento, fra guardie con nonni nordcoreani e l’invasività mediatica delle televisioni nel far trapelare segreti da una parte all’altra. Nam Chul-woo non vuole vedere Seul, non vuole aprire i suoi occhi all’opulenza delle vie dello shopping, non vuole rischiare ulteriori torture una volta tornato indietro. Eppure viene costretto ad aprirli, e li sgrana come un bambino: “È più importante la Patria o la tua barca?”. Con Il prigioniero coreano, Kim Ki-duk mette in scena un calvario fisico, morale ed esistenziale, viaggia con gli abbaglianti accesi e il piede a tavoletta nella crudeltà, non ha paura di mostrarla, di urlarla, di lottare strenuamente per tornare umano e vivo. Il prigioniero coreano non è un gran film, forse nemmeno un ‘bel’ film, lontano dalla bella immagine, lontano dalla poetica del primo Kim Ki-duk. Eppure è un film vivo, bruciante, urgente, che crepita e arriva sotto la pelle come un treno in corsa. Le Coree sono speculari e distorte, vittime delle loro stesse ideologie, e solo l’ingenuità può essere il grimaldello per tentare di scardinarne le storture. O il suicidio. Kim Ki-duk è tornato. Finalmente.
Marco Romagna