IL CORRIERE – THE MULE (2018), di Clint Eastwood
Ogni volta che approcciamo un nuovo film di Clint Eastwood, ci troviamo di fronte a una delle poche manifestazioni residuali di classicità americana, o, utilizzando un’etichetta ben diffusa, di “postclassicità”. Col passare degli anni, anzi, il cinema di Eastwood ha visto un progressivo prosciugamento dei propri strumenti espressivi, che ha investito sia il lavoro di sceneggiatura sia la successiva realizzazione. Specie nei film che lo vedono anche protagonista, rinveniamo intrecci sempre più elementari, narrazione per pochi luoghi ben definiti, stile elegantemente scarno, privo di fronzoli e compiacimenti audiovisivi: la classicità, insomma, va incontro a una propria stilizzazione, secondo precise chiavi di coerenza espressiva che ritornano come costanti un film dopo l’altro (di recente ne avemmo un’altra dimostrazione pure in Sully, 2016). Non fa eccezione Il corriere – The Mule, dove il buon vecchio Clint torna anche a vestire i panni del protagonista, sempre più anziano, adesso anche palesemente provato nelle capacità fisiche – quella schiena arcuata, quel passo stentato sembrano incarnare nel senso più letterale il tempo che hanno attraversato. Il protagonista Earl è di fatto il residuo di un mondo, valoriale e culturale. Ma è anche un problematico antieroe. Come spesso accade nel cinema di Eastwood, i suoi anziani protagonisti sono corpi residuali di fallimenti e trascuratezze. C’è spesso una famiglia, una ex-moglie, dei figli, che hanno poca cura di lui o che conservano aspri risentimenti. Sovente c’è una colpa maschile da espiare, abbandoni affettivi e tentativi di riscatto alle ultime battute della vita. In Il corriere – The Mule tale procedimento narrativo è ridotto ai suoi minimi termini, tanto da sovrapporre nello stesso istante luogo comune narrativo e classicità prosciugata, prevedibilità ed essenzialità. Tale espiazione è narrata stavolta anche con un palese, ulteriore abbassamento dell’orizzonte, come di consueto crepuscolare ma ancor più minimale, sottovoce, sussurrato. Se Gran Torino (2008), ad esempio, si chiudeva con un sussulto di eroismo, stavolta all’Earl di scena non è riservato nulla. Novantenne ritrovatosi senza denaro, Earl si concede al narcotraffico senza alcuno scrupolo morale, senza interrogarsi sulle prime nemmeno sul materiale che gli affidano per il trasporto. E quando scopre di che cosa si tratta, alza il sopracciglio e va avanti, cercando pure di fare a suo modo opere di bene col denaro ricevuto. Il suo unico atto da eroe è sottrarsi a una consegna di droga per correre al capezzale della moglie, e per riaffermare valori familiari altrimenti perduti.
Classicità in Eastwood, insomma, è un’idea davvero spinta fuori dal tempo, ancorata al presente tramite tenui aggiornamenti contingenti (qui sono di scena gli effetti della recessione mondiale, con diretta ispirazione a una vicenda realmente accaduta), ma in un sostanziale quadro di America sempre più perduta, smarrita, nemmeno più immaginabile. In tale direzione Il corriere – The Mule si delinea non a caso come una miscellanea di generi classici del cinema oltreoceano: noir, poliziesco, dramma familiare e pure commedia spalmati su un fondo di western.
Perché alla fine sempre lì si torna: che siano anziani pistoleri (Gli spietati, 1992) o anziani solitari (Gran Torino), i protagonisti di Eastwood, specie se incarnati da lui stesso, sono immagini cristalline di individualismo da Frontiera, ma sempre inquadrati come uomini decaduti, fallimentari, assolutamente incapaci di incidere positivamente sul mondo, se non tramite tardivi tentativi di riscatto – si allinea perfettamente a tale ragionamento pure il protagonista di Million Dollar Baby (2004). Si ha sempre un po’ difficoltà a mettere in relazione Eastwood e buona parte del suo cinema con le sue simpatie politiche. Perché dalle sue tentazioni individualistiche ritorna continuamente, di film in film, l’immagine di uno scacco esistenziale, la lucida, imperitura e sconsolante radiografia di un fallimento, una costante e spietata autocritica sull’incapacità di lasciare un segno sul reale. L’individualismo e l’egoismo sono sempre fonte di espiazione, e pure qui Earl sembra farsi fregare dal mito, tutto americano, del lavoro e benessere come unica via per garantire la felicità alla propria famiglia. Cosicché da molti dei film di Eastwood traspirano precise idee e la loro stessa autocritica, una sorta di verifica in fieri della loro predestinazione alla sconfitta. Poi, certo, stavolta si percepiscono botta-e-risposta interni al racconto che lasciano un po’ il tempo che trovano: alle lesbiche e «negri» incontrati per strada (ma con le motocicliste lesbiche si tratta di una parentesi garbata e non sgradevole, all’insegna della sorridente accoglienza, mentre molto più problematico è l’incontro con la famiglia di colore), risponde la doppia parentesi riservata al razzismo della polizia. Un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma, che aggiungono ben poco al film e francamente non sembrano costituirsi in discorso.
Ciò detto, stavolta il lavoro di prosciugamento sulla struttura narrativa è ancora più intenso del solito. Il corriere – The Mule svolge il proprio racconto tramite precise ripetizioni di luoghi e fatti, fortemente connotati in senso stilizzato. I pick-up, i viaggi, il garage dei narcotrafficanti, le consegne, le parentesi alla villa: la narrazione procede per movimenti circolari, mentre a fianco si aprono due racconti paralleli, uno di detection da parte della DEA e l’altro, meno prevedibile, dedicato al rapporto tra Earl e un giovane trafficante messicano. In entrambi la figura di Earl sembra ergersi a reducistica figura paterna, che vuol fare tesoro della propria sconfitta per qualcun altro.
In tale resa minimale del racconto sono estremamente ridotti anche gli agganci a una realtà di riferimento. L’America tra il 2005 e il 2017 perde quasi del tutto i propri connotati “reali”, trasfigurata in una terra dove sostanzialmente sembrano muoversi solo i suoi protagonisti e i personaggi secondari a loro necessari – i deserti del western. Così anche i comprimari vanno incontro a un’essenzializzazione dei propri tratti che spesso sconfinano nel fumetto – ciò riguarda in particolare gli ispanici, ma anche il comparto dei poliziotti, specialmente il dirigente incarnato da Laurence Fishburne. Si direbbe che un film così conformato è il tipico prodotto di un autore attempato che ha perso la capacità di leggere la realtà, filtrata attraverso categorie irrigidite dall’età. A noi sembra invece che Il corriere – The Mule sia il compimento di un percorso coerente; in un serrato processo di prosciugamento espressivo non si può che finire dalle parti dei generi, sia pure mischiati e riletti, dove la caratterizzazione prevale sul profilo a tutto tondo. Sono molti, del resto, i personaggi che lasciano chi vede con un vago senso d’incompiutezza. Dal messicano Julio di Ignacio Serricchio al poliziotto di Michael Pena, fino al trafficante di Andy Garcia, alcuni sono lasciati per strada, altri si rifugiano nella rapidità bidimensionale. Talvolta viene da chiedersi, anche, perché convocare attori di chiara fama per ruoli così sacrificati (il più sottoutilizzato, in tal senso, appare proprio Michael Pena). Da parte di chi vede la ricezione è spesso problematica, poiché risulta assai sottile il confine tra stilizzazione e semplificazione. Ma al centro del racconto si piazza un personaggio così ben intagliato e significante da far cadere tutti i dubbi sul resto. In veste di attore all’interno dei film da lui stesso diretti Clint Eastwood ha iniziato anche precocemente a delinearsi come corpo residuale di un astratto passato, come relitto di naufragi esistenziali. Complice il suo volto, che già a sessant’anni appariva solcato dal vento come un canyon, Eastwood sta congedando la vita e la carriera in un eterno crepuscolo da almeno vent’anni. Con lui, di film in film sembra sparire anche il sogno di un’America alla quale non ha mai risparmiato uno sguardo aspro e severo, disegnandone sapientemente gli spietati meccanismi di inclusione/esclusione (Mystic River, 2003), la protervia politica (Changeling, 2008) e pure l’ipocrisia sociale piegata a uno schiacciante e univoco modello di vita (I ponti di Madison County, 1995).
Ultimo dei classici, ultimo dei romantici, in Il corriere – The Mule Eastwood porta l’evidenza di un mondo perduto tramite l’oggetto del suo stesso corpo. Corpo così palesemente estraneo al mondo in cui si muove da tramutarsi in costante interrogativo. Sul finale Earl si dichiara colpevole. L’espiazione è compiuta. La sua inadeguatezza alle istanze del mondo (soprattutto affettivo) è la sua vera colpa. L’espiazione, come sempre in Eastwood. Espiare, alla fine, è l’unica opzione di salvezza. E il cinema di Eastwood rimane complesso, interrogativo, problematico, pure enigmatico nella sua apparente limpidezza assoluta.
Massimiliano Schiavoni