THE MOUNTAIN (2018), di Rick Alverson
No, non è tanto quello tematico, con ogni probabilità difettoso eppure interessante, il problema che affligge The Mountain, stroncatissima (forse anche al di là dei suoi effettivi demeriti, o per lo meno troppo spesso per i motivi sbagliati) opera quinta con la quale l’indipendente americano Rick Alverson giunge al concorso numero 75 della Mostra di Venezia. Anzi, per quanto prive di una vera e propria direzione finale in cui incanalarsi e più in generale destinate a non trovare risposte univoche, o meglio a essere sostanzialmente sprecate fra fastidiosi monologhi deliranti e vuoti finali nella neve senza reali significati, non sarebbero nemmeno poche le intuizioni con cui The Mountain, fra il cast di prim’ordine e le capacità di seduzione del suo detour psichiatrico e geografico, sa rendere fertile e almeno a tratti affascinante il terreno cinematografico sul quale fare attecchire le non poche domande storiche, etiche e sociali che porta in dote. Negare questi spunti di interesse, molto più che ingeneroso, sarebbe semplicemente folle. Discorso differente, però, se ci si addentra nell’etica del progetto, nella natura per lo meno ambigua dell’operazione cinematografica di Alverson. Ma andiamo per ordine.
Nel suo entrare di prepotenza nell’immaginario americano degli anni Cinquanta (e del cinema classico prodotto in quegli anni, ribaltandone lo sguardo sui reietti storicamente lasciati fuori campo) per metterne in scena la repressione nei confronti di chi non era perfettamente conformato a quella società in via di ri-definizione impegnata a (non riuscire a) dissimulare nell’ostentazione di opulenza e rigore borghesi la sua dissoluzione morale, The Mountain non manca certo di carne al fuoco, così come non sono certo privi di sapidi ragionamenti alla base i suoi discorsi sulla fotografia come ulteriore furto di quella stessa anima negata dalla medicina e quelli sulla difficoltosa ricerca di un’identità sessuale in un mondo ancora puritano, in cui qualsiasi tentativo di liberazione viene “curato” con una lobotomia. Non è poi certo priva di acume la metafora generale che racchiude nella più disumana pratica di negazione della personalità il cristallizzarsi di tutte quelle atroci utopie d’America che annienta(va)no il diverso (per lo più sessuale) per non ammetterne l’imperfezione, oppure che, in maniera ancor più ipocrita, dopo l’operazione con lo scalpello transorbitale sapevano perdonare e (ri)ammettere in società e nelle famiglie solo chi non sarebbe mai più stato in grado di risvegliarsi dal torpore. Come è senza dubbio interessante, a livello di impostazione generale, il fatto che il giovane protagonista Andy (Tye Sheridan), rimasto solo dopo l’internamento della madre e la morte del padre, in preda alle turbe e alla solitudine e più o meno costretto dagli eventi ad accompagnare nel suo tour per i manicomi lo “scienziato pazzo” Wallace Fiennes (incarnato da Jeff Goldblum con più di un occhio alla controversa personalità di Walter Jackson Freeman che a metà anni Cinquanta ancora si ostinava a portare avanti una tecnica della quale era già stata ampiamente negata la validità scientifica e umana), abbia per tutto il film quello stesso sguardo spento, appannato e inespressivo dei pazienti lobotomizzati.
Ma allora dov’é che The Mountain cade? Proprio nello sguardo, non in quello del protagonista che è forse l’unico che sente un reale principio di vicinanza nei confronti degli orrori messi in scena, ma in quello, esattamente all’opposto algido e impietoso, della macchina da presa. Quello stesso sguardo che tre anni fa in Entertainment era un dubbio mitigato dai momenti comici, e che qui diventa unico vero centro focale del film, e quindi certezza. Di inaccettabilità.
Rick Alverson, a partire dal 4/3 e da saturazioni decisamente più fredde eppure vicine per contrasti al Technicolor dei tempi messi in scena, è sin troppo lucido, freddo e programmatico, sempre alla ricerca dell’estetica a costo di dimenticarsi, proprio come il medico che tanto stigmatizza, di avere a che fare con degli esseri umani. Nel suo spasmodico rincorrere il bello anche quando di fronte all’obiettivo ci sono malati psichiatrici, messi in scena a metà strada fra il pesce rosso, la scimmia allo zoo e il vaso Ming, Alverson lascia indietro ogni spunto umano e personale per cercare l’armonia delle forme e dei colori, per cercare la perfetta simmetria, per cercare il taglio di luce che sappia esaltare i cromatismi delle tappezzerie, il rifulgere degli oggetti di scena e le forme di corpi trattati alla stregua di manichini, depotenziati, spersonalizzati, svuotati, distanti, lasciati soli nella neve. Ancora una volta traditi. Ed è qui, ben al di là del deragliare finale con un’ubriachezza molesta – sulla quale torneremo – che riesce nel compito pressoché impossibile di rendere insopportabile un attore stratosferico come Denis Lavant con (più d’)uno sproloquio farneticante che diventa ben presto macchiettistico, ben al di là della sostanziale confusione che entra nella seconda parte a mescolare senza soluzione di continuità repressione sessuale, ermafroditismo, arte, seduzioni, forzate pacificazioni dei sensi, immagini, cattivi maestri e ipocrisia, ben al di là di un finale sotto la neve che vorrebbe essere poetico ma di fatto non riesce a chiudere nemmeno uno dei discorsi affrontati né a colmare il vuoto emotivo nel quale il film lascia i suoi protagonisti, che stanno i reali motivi per rifiutare The Mountain e la sua preoccupante superficialità filosofica dissimulata nell’estetica “da festival”, fra campi medi e cura del “bello”.
È nell’arroganza troppo poco umana della messa in scena che si annidano gli insormontabili problemi etici di The Mountain, è nel suo programmatico strizzare l’occhio al pubblico festivaliero che si annidano i suoi veri limiti, ben più gravi della vacuità e delle approssimazioni che incontra nel suo procedere. Certo, c’è l’affastellarsi di problematiche (da quelle di identità sessuale con le foto transgender sulla parete di Andy a quelle etiche sulla medicina con Fiennes avvinghiato come un maniaco a pazienti e puttane, da quelle morali di una società che crede pedissequa ai cattivi maestri e che al comprendere preferisce l’annichilire a quelle psicologiche secondo le quali l’unico emergere “sano” del desiderio sarà un coito interrotto per eseguire l’operazione) tutto fuorché prive di attrattiva, ma The Mountain è un film che vive di istanti troppo sporadici, e che all’istrionicità di Goldblum, all’immobilità quasi installativa di Udo Kier e alla recitazione come sempre corporea di Lavant non sa controbattere con un’impostazione generale all’altezza. Si limita a un errabondo vagare senza meta, forte di un’indubbia capacità mesmerica eppure vittima della sua stessa ricerca estetica, che lo porta a non chiudere i discorsi intrapresi ma a lasciarli lì, come una suggestione a metà, come una bozza.
Una ricerca estetica che finisce quasi inevitabilmente per diventare altezzosità sdegnosa di sguardo, come se il regista fosse senza peccato, come se le degenerazioni che mette in scena fossero lontane dalla sua intoccabilità, dall’alto della quale si permette di giudicare (e stigmatizzare) sia i malati sia chi (non) li cura, sia chi li vuole reprimere sia chi, una volta di fronte a una platea dallo sguardo assente, cerca di affascinare e diventare il nuovo “Uomo nuovo” da sempre cercato dalla mentalità degli Stati Uniti d’America. Ma anche i possibili riferimenti trumpiani rimangono lì, come un’implicita impressione, senza che ci sia una vera e propria presa di coscienza e di posizione da parte di un Alverson che preferisce concentrarsi sulla ieraticità della macchina, sulle profondità di campo, sulle inquadrature – le sue e quelle del suo protagonista – che arrivano a immortalare, con un distacco che se non è proprio sadismo per lo meno annulla qualsiasi pietà e coinvolgimento emotivo, il momento in cui l’anima viene per sempre cavata dalle orbite oculari. Ed è così che i monologhi che farneticano di arte e sessualità nelle contorsioni di Lavant, figli probabilmente più del whiskey che di vere pagine di sceneggiatura e nei quali il fascino dell’arte oratoria è il bel vestito indossato dalla vacuità per portare avanti la propria pochezza come fosse filosofia, si incarnano in un certo senso in quelle stesse inquadrature fredde ed estetiche di Alverson, rivelando come l’imbonitore che il suo personaggio vorrebbe incarnare altro non sia che una proiezione su schermo del regista stesso. Con la stessa consapevole volontà di lobotomizzare per poi farsi largo nelle menti annebbiate con la sua falsa luce di impressioni e superficialità. Ed è qui, nell’etica, e non nelle tematiche e nella loro (voluta) inconcludenza, che The Mountain va stanato, stroncato e rifiutato. Perché questo utilizzo del mezzo cinema, molto prima del “bello” e del “brutto”, dell’“affascinante” e del “vuoto”, del “trappolone” e del “paraculo”, è un qualcosa che ha del criminoso. E non basta certo che il film “interessi” per perdonarlo.
Marco Romagna