DocLisboa accoglie The most beautiful country in the world, il nuovo film di Želimir Žilnik, in perfetta linea di continuità con la retrospettiva completa che il festival portoghese già tre anni fa aveva dedicato all’ormai più che settantenne regista serbo, uno dei più importanti dell’intera ex Jugoslavia.
Žilnik, giovane intellettuale comunista e cinéphile, ha dato vita negli anni ’60 alla nouvelle vague jugoslava, nelle forme, condivise con Dušan Makavejev, Alexandar Sasha Petrovic e Zivojin Pavlovic, di una “black wave” che come molte vague dell’est europeo ha cercato di superare il cinema classico andando a privilegiare il privato, e innovando così il linguaggio del cinema del Paese e dei Paesi slavi.
Il suo percorso, pressoché infinito, comprende Early Works – Opere giovanili, con cui vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1968. Un film indipendente e sovversivo, che mescolava brechtianamente Marx e burla. Il suo umorismo corrosivo ovviamente lo fece imbattere ben presto nella censura, e perciò Žilnik si vide costretto a emigrare in Germania, continuando a fare un cinema surreale e provocatorio nel pieno del Nuovo Cinema Tedesco dell’epoca. Tornato già verso la fine degli anni ’70 in Yugoslavia, inizia a lavorare per la tv con film più piccoli, (s)composti mettendo a punto il suo cinema tra documentario e fiction: un modo di girare forzato da limitate esigenze produttive e da una volontà di essere aderente alla realtà senza però esserne solo un osservatore passivo. Filma ovviamente la disintegrazione della Jugoslavia, e nel 1994, con Tito among the serbs for the second time, fa addirittura tornare un finto Tito tra le strade di Belgrado provocando un surreale cortocircuito presente/passato.
Questa premessa ci fa capire come il suo sia da sempre un “fare cinema ai margini”, e ci porta verso il suo nuovo film che racconta gli esseri umani più marginali di questo inizio secolo – i rifugiati – ed è girato proprio ai confini dell’Europa, tra Austria, ex Juguslavia e, utopicamente, Afganistan e Siria.
Žilnik negli ultimi anni ha raccontato con tutto il suo cinema la transizione verso l’Europa e i problemi degli immigrati: Fortezza Europe, Europe Next Door e soprattutto la trilogia sul giovane zingaro Kenedi (Kenedi Goes Back Home, Kenedi, Lost and Found e Kenedi si sta per sposarsi) sono gli esempi più significativi.
E anche in The most beautiful country in the world, film dal titolo più che ironico, continua a parlare di questi temi: il film parte nel dicembre 2016 da una manifestazione di fronte al parlamento a Vienna, con due uomini ai margini della massa di persone che cominciano a parlare della distruzione della guerra, delle morti e delle macerie nei loro paesi. Uno dei due ragazzi è siriano e racconta all’altro di Aleppo, «una città che aveva 7 milioni di abitanti, ed era la città più bella del mondo», l’altro non la conosce e non sa cosa dire, ma il loro breve scambio è modellato dall’interesse e dalla comprensione. Le loro storie, tra Siria e Afganistan, si intrecciano con quelle di altri migranti, con la ricerca di un appartamento, con le prove di un coro sulla “prigione tedesca”, con il cercare di capire i connazionali bloccati alle frontiere dell’Europa.
Žilnik torna anche in Serbia e documenta brevemente i campi al confine con Croazia e Ungheria, le frontiere che bloccano ormai l’accesso in Europa. I temi sono purtroppo quelli ormai classici: persone che muoiono nel viaggio, il senso di non appartenenza a nessuno Stato, i problemi della lingua, un passaporto come chimera verso il bastione inattaccabile dell’Europa, una società che si dice molto aperta ma che è invece sempre più chiusa, che cerca di proteggersi da non si sa che cosa.
Quello che cambia rispetto ai molti film sui migranti è il modo in cui gira Žilnik. E grossomodo a metà di The most beautiful country in the world c’è una scena significativa che lo riassume molto bene. Il ragazzo siriano racconta a un’insegnante di musica tedesca di una canzone araba, “My homeland”. Si vede che ne è affascinato, le dice che non è la canzone di un Paese ma che è al contempo araba, siriana e palestinese, e non riconosce quello che è il suo Paese perché non esiste più alcun Paese. I suoi discorsi parlano di una terra stupenda che non si può rendere in tutta la bellezza che vorrebbe raccontare, e Žilnik mette in scena questi istanti in un supermercato, con le cassette della frutta e della verdura sullo sfondo ad accentuare un contrasto tra la poesia dell’utopia e l’amarezza della realtà che i migranti sono costretti a vivere. Poi il ragazzo apre YouTube per far sentire la canzone alla donna, che riconosce presto le note dell’inno nazionale dell’Iraq. Lui nega con forza questa possibilità: non può essere l’inno di Saddam. Ma, chiamate a suo supporto le donne della famiglia, scopre che è davvero l’inno iracheno, composto negli anni Trenta da un palestinese e solo successivamente scelto come inno. Ed è questo anche il cinema di Žilnik, semplice e diretto, che attraverso stravaganti rimandi ti porta poi da un’altra parte.
Nel film si susseguono storie per marcare le differenze tra uomini e donne, incontri e riconciliazioni con un vecchio nonno che poi diventerà quasi il protagonista. Ci sono anche surreali finti matrimoni, feste per il raggiungimento del permesso di soggiorno, la memoria che si perde sul Paese in cui sono state preso le impronte: Slovenia o Slovacchia? Ma che importanza ha, sempre ammesso che abbia realmente un’importanza?
Sono temi fortissimi quelli che ci porta Žilnik ma, come sempre nel suo cinema, nonostante la durezza delle storie tutto è sempre narrato con ironia e la vita vera sembra scorrere sullo schermo. Il regista serbo mescola i linguaggi: documentario nelle manifestazioni e fiction spoglia quasi improvvisata nel raccontare le vite dei personaggi. Il suo è un cinema anche divertente, come nelle sequenze di arti marziali dove entrano improvvisamente le differenze tra i film di Jackie Chan e Bruce Lee («molto più realistico!»), ed è sempre spiazzante anche nelle metafore più ardite, come quando la metropolitana austriaca viene associata alle miniere afgane.
Alimentato dal dubbio, Žilnik filma sempre con due o tre macchine accese in contemporanea un testamento al suo metodo democratico, e nonostante la sofferenza di certi avvenimenti The most beautiful country in the world ha sempre un tono leggero, con scene spesso popolate da un sacco di personaggi, apparentemente improvvisate o messe in scena, ma sempre complesse. Il suo, del resto, è un cinema ai margini, e proprio per questo umanissimo e sincero, che racconta di uomini invisibili al sistema della nostra Europa. Un cinema da tenersi stretto, sorprendente e acuto, sperimentale nei linguaggi e pienamente politico nei contenuti. Ieri come oggi, senza perdere un solo colpo.
Claudio Casazza