31 Gennaio 2017 -

THE MOLE SONG – HONG KONG CAPRICCIO (2016)
di Takashi Miike

Avevamo lasciato l’impacciato agente sotto copertura Reiji, pessimo poliziotto ma incredibilmente capace di guadagnarsi la fiducia del clan yakuza nel quale viene obbligato a infiltrarsi, alla fine del 2013 con la sua capacità di perdere puntualmente pantaloni e intimo evitando la nudità solo grazie all’immancabile foglio di giornale a mezz’aria che, nell’immaginario esplosivo di Takashi Miike, arriva ogni volta immediato e provvidenziale a coprirgli le pudenda. Era il Festival Internazionale del Film di Roma, quando ancora si chiamava Festival e non Festa e quando, in quanto Festival, la sua direzione artistica veniva affidata all’altissimo profilo di Marco Müller, che Takashi Miike lo aveva sempre portato anche al Lido nei suoi anni di direzione veneziana. In quell’anno The Mole Song – Undercover Agent Reiji, nel segno di una continuità inaugurata l’anno prima con lo splendido Il canone del Male e portata avanti nell’edizione successiva con As the Gods will, era arrivato sugli schermi dell’Auditorium capitolino all’interno di una doppietta miikiana, in cui era stato presentato, prima che diventasse invisibile, anche il geniale mediometraggio Blue Planet Brother, nel quale l’accanito fumatore Miike metteva in scena tutta la capacità sociale della sigaretta in amicizia interplanetarie nate e portate avanti nelle pause dedicate al tabagismo. Quella di Marco Müller a Roma era una gestione cinefila e competente, capace di dare il giusto spazio all’opera più smaccatamente autoriale come ai divertissement dai linguaggi ultrapop, una gestione che cercava film e non anteprime stampa, registi e non attori, arte e non paillettes – ma questa, purtroppo o per fortuna, è un’altra storia, e non ci sembra il caso di divagare.

Avevamo lasciato l’impacciato agente sotto copertura Reiji alla fine del 2013, si diceva, e lo ritroviamo poco più di tre anni dopo in The Mole Song – Hong Kong Capriccio, annidato nella sezione Voices del sempre pachidermico programma del Festival di Rotterdam, poco più di un mese dopo l’uscita direttamente in sala in Giappone. Lo ritroviamo con le braghe calate, ancora una volta, appeso a un elicottero/gabbia destinato a risolvere in un’irresistibilmente surreale danza intorno al fuoco una delle tante lotte fra yakuza. Takashi Miike, nella seconda puntata della serie tratta dai manga di Takahashi Noburo dedicati all’agente-talpa, continua e anzi migliora il percorso intrapreso nel primo film, mescolando con la sua tipica eresia lo yakuza eiga con elementi comici, grotteschi e demenziali in una commistione di linguaggi che è in realtà un calderone pop nel quale tutto può trovare spazio, purché sia lo sguardo debordante e dissacrante di Takashi Miike a metterlo in scena. Ci sono gli stessi personaggi/mostri sul ciglio della deformità – con tanto di “deriva” cyber di arti meccanici controllabili con la PSP e di guanti á la Wolverine -, ci sono gli stessi intermezzi animati, ci sono gli stessi colpi di scena fracassoni, dissacranti e goliardici. Ci sono le stesse frustrazioni sessuali che erano esplose nella leggendaria sequenza della perdita della verginità nel primo episodio, ci sono gli stessi equivoci, c’è lo stesso senso di giustizia “impossibile”, c’è la stessa voluta esilità di trama su cui innestare le  ripetute gag, c’è la stessa voglia di stupire e di far sbellicare lo spettatore fra le espressioni attonite che accompagnano le voci fuori campo, il suono del flauto che annuncia ogni erezione, le situazioni più assurde e i combattimenti sospesi fra il tosatsu1, una ventosa schifosamente sporca e una tigre pronta a lanciarsi da un grattacielo. Ci sono i doppi colleghi di una doppia vita, c’è il salvataggio del Boss perché “deve essere la giustizia a punirlo e non un sicario”, c’è la figlia di lui, bellissima e vergine, e c’è ovviamente Junna, la poliziotta amore di una vita, che arriva proprio al momento del bacio con la giovane ma capirà di essere parte di un gioco più grande, in cui nessuno può prendere reali decisioni spontanee. E, ovviamente, c’è The Mole Song, l’“inno” della talpa, che i colleghi poliziotti cantano a Reiji allontanandosi per i corridoi del carcere dopo non avergli aperto la porta, ma avergli lasciato una lima con l’ordine di fuggire.

Il nuovo Miike è un nuovo viaggio nell’immaginario di un autore dalla lucida follia, un nuovo manuale di messa in scena che lascia detonare in un pop esplosivo la sua demitizzazione sistematica degli (anti)eroi cinematografici e delle regole basiche della narrazione, a partire da una vittima di traffico di esseri umani che, dopo “aver vissuto come una principessa”, diventa la più pericolosa fra i trafficanti, e fino a quando il bombardamento di eventi surreali porterà a una conclusione credibile proprio nel suo aver preventivamente reciso qualsiasi legame con la “credibilità” fra il fantastico, l’azione e il nonsense. Anzi, dove The Mole Song – Undecover Agent Reiji tendeva, come non di rado accade nella filmografia di un autore leggendario per la propria prolificità come Takashi Miike, a partire folgorante per poi tendere sulla lunga distanza a sfilacciarsi, rimanere un po’ troppo episodico e alla lunga rischiare di stancare lo spettatore, questo secondo The Mole Song – Hong Kong Capriccio è un vero e proprio crescendo, destinato a sommare soluzioni via via sempre più “folli” fino a un finale che deflagra, appunto, a Hong Kong, nella “casa” del nemico, dove la giovane figlia del Boss sta andando all’asta come schiava, il nuovo capo della polizia così inflessibile nei confronti degli yakuza (e quasi petrianamente “al di sopra di ogni sospetto” a causa del padre poliziotto rimasto ucciso in azione) sarà destinato a ricordare il Cristopher Lloyd di Chi ha incastrato Roger Rabbit, la via di fuga sarà “una strana corda” da tirare e Reiji, sempre saldo nella sua lotta per la giustizia e nei suoi principi e pur avendo sventato un traffico di esseri umani, finirà per diventare il ricercato numero 1 dell’Interpol. The Mole Song – Hong Kong Capriccio mescola istanze narrative e belle donne, lucida follia e senso di giustizia tanto saldo da essere ormai distorto,  erotismo e inettitudine, yakuza e demenzialità, ridicoli giubbotti antiproiettile e seconde pistole, tacchi a spillo e fruste, trovate originalissime e impossibili follie, mentre in mezzo, a essere schiacciati/tirati/toccati/presi a calci, ci sono sempre e inevitabilmente i testicoli del protagonista. È un film sfrenato, coinvolgente, spassoso, distorto, orgogliosamente anarchico. Un divertissement dichiarato, che non cerca di inerpicarsi in strade che non gli competerebbero ma viaggia nel suo immaginario ultra-pop fino a diventarne rumoroso portavoce. E a riportare al centro e genialmente, ancora una volta, tutta quella che è la funzione più ludica del cinema, fabbrica di sogni, di risate, di storie fantastiche e a volte di eresie. Senza dimenticare, come ricordano i titoli di coda, che è estremamente importante allacciare sempre il casco quando si va in moto!

Marco Romagna

1 Il tosatsu, come raccontato da Sion Sono in Love Exposure, è un genere hentai giapponese che consta nel fotografare le mutandine sotto le gonne. Una pratica in cui, più ancora di “ciò che si vede”, è eccitante il “furto”. Qui non ci sono macchine fotografiche, ma l’ossessione per quello che si trova “lì sotto” è la stessa, tanto che prima i flauti suoneranno per la moglie del Boss a letto in attesa del massaggio, e più tardi all’antagonista affiliata alla mafia cinese basterà divaricare le gambe per mettere Reiji temporaneamente fuori combattimento.
“The Mole Song: Hong Kong Capriccio” (2016)
Action, Comedy | Japan
Regista Takashi Miike
Sceneggiatori Noboru Takahashi (manga), Kankurô Kudô (screenplay)
Attori principali Tôma Ikuta, Eita, Tsubasa Honda, Nanao
IMDb Rating N/A

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