Prima di tutto dovrebbe esserci New York, dovrebbe esserci una famiglia disfunzionale di artist(oid)i di origine ebraica, dovrebbero esserci le deliziose interpretazioni della senilità secondo Dustin Hoffman, della mezza età di Adam Sandler, Ben Stiller ed Elizabeth Marvel, l’entusiasmo giovanile di Grace Van Patten. Dovrebbero esserci le loro incomunicabilità, le loro fragilità, le loro inadeguatezze, i loro sogni, le loro piccole e grandi utopie. Dovrebbero esserci il loro scontrarsi e il loro ritrovarsi nel momento del bisogno, come una famiglia, come tutte le famiglie, in quello che è (quasi) sempre stato il cinema semplice, intimo e corroborante di Noah Baumbach. Dovrebbero, già, condizionale. Perché prima di tutto questo, purtroppo, continua a esserci il logo Netflix: il logo delle polemiche di Cannes 2017, pronte a esplodere fra il Festival e gli esercenti in giro per tutta la nazione transalpina, e pure fra Almodòvar e Will Smith all’interno della giuria. È il logo che, per via di un cortocircuito legislativo francese che imporrebbe al gigante internautico, che il film lo ha prodotto, di aspettare ben 4 anni in caso di uscita nelle sale prima di poterlo lanciare anche sulla propria piattaforma, costringe a forza su un obbligato piccolo schermo anche due titoli in concorso a Cannes, che per la prima volta in 70 edizioni non verranno distribuiti in sala – il luogo deputato a un film, a un qualsiasi film – in Francia. Ma la colpa della polemica anteposta al film, questa volta, non è tanto della polemica (che, per quanto tambureggiante, sta pure già andando verso il placare i suoi toni), ma di The Meyerowitz Stories (New and Selected), che ancor meno del “compagno di barricata” Okja di Bong Joon-ho, gradevole quanto si vuole ma pur sempre “filmetto” di intrattenimento per bambini e di messaggi animalisti, avrebbe meritato di concorrere per la Palma d’Oro. Ma quest’anno, in un Concorso, salvo colpi di coda degli ultimi giorni, privo di capolavori, c’era un bisogno disperato di nomi, e a latere dei previsti nuovi tonfi sordi da parte di chi ha sempre fatto un cinema retrivo e insulso (su tutti Hazanavicius e Lanthimos, dei quali non parleremo su queste pagine perché non vorremmo mai rischiare di salvarli dall’oblio), ci si è ritrovati di fronte a troppe delusioni più o meno cocenti per le opere minori di grandi registi – il pur molto buono Haynes, il pur discreto Bong, secondo molti lo stesso Haneke, secondo altri (e forse a torto) la Kawase – fra i quali un Baumbach per la prima volta inutile, floscio, privo della solita verve sagace, paradossale e sincera – lanciati a riempire il palinsesto.
Certo, The Meyerowitz Stories è pur sempre un film di Noah Baumbach, che da buon film di Noah Baumbach rivela ancora una volta una perfetta direzione degli attori, l’umorismo fine e intelligente, la semplicità e la parabola sbrindellata come ben precise scelte stilistiche. C’è il personaggio di Dustin Hoffman che, da buon capofamiglia, è l’ingombrante metro di paragone per tutti: è lui che, mediocre scultore, ha dato inizio alle mire artistiche di famiglia fra un figlio che ha sempre composto canzoni ma non è mai stato in grado di pubblicarle e di una giovane nipote che scrive, dirige e interpreta, “con grande talento”, orribili cortometraggi non certo privi d’erotismo; è lui che, per quanto artista semisconosciuto, viene invitato dal MoMA per una mostra di parte delle sue opere, e riunirà così ancora una volta una famiglia di tre figli ormai cinquantenni avuti da altrettante mogli, mentre la quarta e attuale sposa si trascina per casa costantemente ubriaca. E poi ci sono, appunto, i suoi figli. C’è un Adam Sandler nel miglior ruolo da molto tempo a questa parte che risulta splendidamente bloccato come quella gamba che per tutto il film si trascina dietro zoppicando ma è quasi inspiegabilmente adorato come fosse un semidio dalla figlia, c’è un Ben Stiller divorziato che ormai comunica con suo pargolo solo tramite brevi videochiamate di FaceTime attese tutto il giorno e prontamente frustrate dall’invisibile ma ingombrante ex-moglie, e c’è un’Elizabeth Marvel caricaturale, a metà strada fra La Signora del Ceppo di Twin Peaks e la senzatetto che aiutava Kevin a New York in Mamma ho riperso l’aereo. Infine, c’è la casa/bottega paterna nella quale tutti sono cresciuti e tutti saranno destinati a ritornare, insormontabile barriera fra chi la vuole vendere e chi non sente ragioni, e ci sono, ma non riescono a emergere dal sottofondo, la malattia, la paura della morte, la necessità di imparare ad accettarsi per come si è. Le storie della famiglia Meyerowitz, come i pezzi di un puzzle, hanno bisogno di scontrarsi anche fisicamente, di riscoprire la propria fisicità, di rotolarsi per terra, di sanguinare dal volto e dal naso, di rendersi conto che nelle vene di due fratelli il plasma che scorre è sempre e comunque lo stesso, e che forse la mediocrità e il fallimento, quando vogliono dire essere semplicemente se stessi, non costituiscono un’onta così infame e dura da sopportare.
Il che, in un esordio o comunque in un film di autore meno affermato, non sarebbe nemmeno pochissimo, ma si tratta di un film di Noah Baumbach, e le aspettative non possono che pretendere qualcosa di più. I problemi iniziano quando, nello scorrere dei capitoli che costituiscono The Meyerowitz stories, la grazia quasi rohmeriana di Frances Ha ritorna alla mente solo nel rimarcare la sua distanza siderale, come pure sono lontani l’avanzare dell’età e i confronti generazionali di While we’re young, come pure è lontano lo sguardo acidulo e accorato sugli States di oggi che sapeva intingere nel (piccolo) grande cinema le vicende di Mistress America. È vero, Noah Baumbach ha sempre fatto un cinema uguale a se stesso, fatto di semplici congegni narrativi nei quali innestare con ironia e dolcezza le insicurezze e le mediocrità che non solo sono proprie di tutti noi, ma che in un certo senso ci rendono più umani. Eppure, sul suo sentiero già più volte (ben) battuto, The Meyerowitz Stories (New and Selected) costituiscono la prima volta in cui si annusa un accomodamento di Noah Baumbach sulle forme del suo cinema, un sedersi sullo schema funzionale e collaudato, un bloccarsi in una maniera di se stesso che, per lo meno questa volta, non riesce ad andare oltre il mero (e mai così stanco) intrattenimento di una commedia familiare che ha in definitiva poco da comunicare. I Meyerowitz, nella loro mediocrità e nelle loro piccolezze da famiglia allargata e disfunzionale fra divorzi, litigi, rimpianti, insoddisfazioni e fallimenti, avrebbero voluto strizzare l’occhio al Wes Anderson de I Tenembaum facendoli rivivere nella comunità ebraica newyorchese che già fu di Woody Allen, ma questa volta, nell’adesione à la Cassavetes al “solito” canovaccio allestito da Baumbach, qualcosa si inceppa in un’inaspettata mancanza di verve comica che strappa sorrisi solo sporadici, in un’inedita superficialità che sconfina nella vacuità contenutistica, in una drammatica carenza di quella sincerità spontanea che ha sempre staccato Baumbach dalla diffusa mediocrità del cinema indie americano. Solo in un paio di sequenze emerge il cuore del film: quando Adam Sandler e Grace Van Patten si siedono insieme, a quattro mani, al vecchio pianoforte per tornare a cantare quella canzone composta da bambina, e poi quando Sandler e Stiller si trovano, ancora sanguinanti dopo essersi finalmente chiariti a suon di pugni, costretti a presentare la mostra in luogo di un padre ricoverato in ospedale sospeso fra la vita e la morte. Tornando finalmente, fra scuse forse tardive ma sincere e il reciproco supportarsi, una famiglia. Troppo poco per Noah Baumbach, troppo poco per Cannes, e forse troppo poco anche per Netflix, il cui logo sarà destinato a rimanere davanti al film, o forse è proprio l’unica cosa che rimane in mano alla fine di un lungometraggio che, fra i grandi per lo più in tono minore del concorso, è probabilmente la più bruciante delusione. Non perché sia “brutto”, non lo è affatto, ma perché è proprio impossibile scorgerne una qualsiasi utilità al di là dei conti in banca di chi ci ha lavorato e di chi, in televisione, su pc, ma non al cinema, lo distribuirà.
Marco Romagna