L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE (2018), di Terry Gilliam

…«Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch’io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l’apparenza delle cose come vedi non m’inganna,
preferisco le sorprese di quest’anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d’oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire…
Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il “capitale”, oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al “potere” dare scacco e salvare il mondo intero?
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il “male” ed il “potere” hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
Il “potere” è l’immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte:
siamo i “Grandi della Mancha”,
Sancho Panza… e Don Chisciotte!»
Francesco Guccini, Don Chisciotte

Don Chisciotte è l’illusione al potere, in lotta contro i mulini a vento di una realtà ingiusta, triste, priva di valori. Sono i sogni di un idealista, talmente puro da riuscire a vedere, come con gli occhi di un bambino, quello che gli uomini, gli adulti, i maturi non riusciranno mai a vedere. Don Chisciotte è miraggio, è chimera, è magia, è profondo senso di giustizia e di umanità che non ha paura di mostrare la più profonda dignità anche nella fragilità dell’anziano sognatore. Don Chisciotte è cinema, è regia, è vedere con gli occhi quello che comanda l’immaginazione, è metterlo in scena, in un limbo (in)finito fra finzione e realtà. Don Chisciotte è chi lotta per ciò che è giusto, per salvare una Dulcinea che non esiste, per la centralità del proprio sogno di cavalleria e di bontà, e poco importa se Ronzinante non è realmente un nobile destriero ma un ronzino moribondo, poco importa se lo scudiero Sancho Panza continua a cercare di riportarlo alla realtà dalla non-sella del proprio asino, poco importa se, nel cavalcare campagne con la propria armatura improvvisata e la lancia traballante nelle mani, il vecchio pazzo si rende sempre più ridicolo nei suoi vagheggiamenti, nei suoi disarcionamenti, nel suo rimanere impigliato alle pale del mulino, o nelle braccia del suo, e solo suo, gigante. È proprio nella sua follia che sta la sua libertà, è proprio nella sua sublime ostinazione a credere nel sogno, nell’illusione. Rinsavire e tornare alla realtà, per Don Chisciotte, vuol dire morire, e forse è dovuta proprio a questo la maledizione contro chiunque abbia cercato di prenderlo dalle pagine di Cervantes per trasporlo sullo schermo cinematografico, costretto ogni volta a dover ritornare a fare i conti con la realtà più asfissiante di un progetto alla deriva, con una realtà assassina della fantasia, dell’immaginazione, dei sogni in celluloide. Con una realtà/muro contro cui andare a sbattere, consapevoli che non tutte le ferite si potranno del tutto rimarginare.
La prima, straordinariamente illustre vittima della maledizione di Don Chisciotte è stata Orson Welles, il cui Don Quijote, girato nel corso di lunghi anni e quasi senza budget su qualsiasi stock di pellicola 16mm fortunosamente reperito, dopo essere passato per la scomparsa dell’attore protagonista Francisco Reiguera sostituito con una controfigura, ha finito per rimanere incompiuto alla morte dell’autore, in attesa di un destino ancora più beffardo pronto a presentarsi nelle forme di un montaggio delirante e insultante, che nient’altro ha fatto che rubarlo all’immaginario wellesiano per consegnarlo, monco e travisato, ingiudicabile, imbarazzante, impossibile, a quella stessa realtà (produttiva ma non solo) che lo aveva fatto fallire. Era la Mostra di Venezia del 1992, quando il sostanziale falso d’autore Don Quijote (non) de Orson Welles (ma di Jess Franco) veniva proiettato – lasciando basiti i testimoni di un simile massacro – per la prima e purtroppo non unica volta. Già, il ’92. Proprio l’anno del primissimo embrione del The man who killed Don Quixote secondo il talento visionario di Terry Gilliam. L’anno dell’inizio della sua personale odissea, l’anno dell’inizio della sua personale battaglia contro il destino, l’anno dell’inizio di una leggenda lunga 25 anni. Sarebbe dovuto essere il suo film più ambizioso, The man who killed Don Quixote, quello più costoso, quello più importante, quello da scrivere e riscrivere per quasi dieci anni, nei quali nel frattempo Gilliam aggiungeva alla sua filmografia, già di tutto rispetto fra la co-regia con Terry Jones negli ultimi due Monty Python e poi i vari Banditi nel tempo, Brazil e La leggenda del re pescatore, con in mezzo l’altra odissea produttiva con annesso flop del pur buonissimo Le avventure del Barone di Munchausen, due pietre miliari come L’esercito delle dodici scimmie e Paura e delirio a Las Vegas. Poi, fra il ’98 e il 2002, la pre-produzione entra realmente nel vivo, e ben presto The man who killed Don Quixote, da potenziale capolavoro, diventa film maledetto.

Ce lo avevano già raccontato Keith Fulton e Louis Pepe nel 2002, con il loro capitale Lost in La Mancha. Un film che sarebbe dovuto essere il backstage di The man who killed Don Quixote, e che invece è diventata la cronistoria di uno dei più incredibili fallimenti cinematografici di ogni tempo, uno spaccato su come nulla possano l’immaginazione e la passione contro la sfiga, uno straordinario documentario sulla realtà che vince contro la fantasia, contro il sogno, contro Don Chisciotte, contro il cinema, contro l’immaginazione, contro Terry Gilliam, costretto ad abbandonare un progetto già avviato, iniziato, finanziato, costretto a sbattere contro i mulini a vento della realtà, costretto a rendersi conto dell’impossibilità di fare il suo film. Prima i problemi di budget, poi gli attori arrivati all’ultimo, poi i dolori di Jean Rochefort, settantenne Don Chisciotte costretto ad abbandonare il progetto da una doppia ernia del disco dopo due anni di casting e sette lunghi mesi per imparare l’inglese, mentre l’assicurazione rifiutava di considerare “forza maggiore” la sua malattia fino a diventare proprietaria della sceneggiatura di un film che sembrava definitivamente destinato a non farsi. In mezzo, l’audio reso inservibile dagli aerei militari che continuavano a sfrecciare sopra la location, un nubifragio inatteso a rovinare la pellicola nuova e già impressionata, l’attrezzatura alla deriva nella fiumana di fango, la morfologia e l’aspetto del set drasticamente modificati dalla tempesta e dal pantano, non più compatibili con le riprese già effettuate. Tutto quello che poteva andare male, durante il primo tentativo di realizzazione di The man who killed Don Quixote, lo ha fatto, e le immagini già girate con Rochefort e Depp, con i giganti e con Vanessa Paradis mai andata oltre al provino, sono diventate ricordo, memoria, rimpianto. Immagini di resa, di abbandono, di morte di Don Chisciotte e dei suoi sogni, ultimo baluardo contro l’iniquità di una realtà senza più valori. Anzi, no. Perché ora, finalmente, dopo venticinque lunghi anni di attesa e con in mezzo un altro tentativo andato a vuoto per mancanza di fondi fra il 2008 e il 2010, The man who killed Don Quixote esiste.
Esiste per chi ci ha sempre creduto, per chi ha sempre lottato contro i mulini a vento. Esiste come atto di giustizia, esiste come atto di memoria, esiste come raggiungimento di un’ossessione. Esiste per chi negli anni ha preso parte al progetto ma non lo ha mai visto compiersi, esiste per Jean Rochefort e John Hurt non sopravvissuti al 2017, esiste perché era necessario che esistesse, che sconfiggesse la maledizione, che non lasciasse nulla di intentato. Solo ora Terry Gilliam potrà ripensare serenamente alla sua vita e alla sua carriera, ed è per questo che non conta l’effettiva riuscita o meno di The man who killed Don Quixote, non contano i suoi enormi problemi, non contano le forzature, non conta la sua eccessiva lunghezza, non conta l’autoparodia in cui spesso inciampa, non conta la sua mancanza di controllo che lo porta spesso fuori dai binari. Conta che ci sia, che esista, che sia proiettabile, crepitante, vivo, tangibile, visibile. Vero eppure sogno, sogno eppure vero, più forte del reale. Ingenuo, e quindi puro. Poco importa che The man who killed Don Quixote sia “brutto”: è un film di cuore, è un film commosso, è un film leggendario che annulla una maledizione. Compreso l’ultimo contenzioso con il produttore Paulo Branco, per il quale il film ha rischiato di non uscire, e per il quale il Festival di Cannes lo ha dovuto escludere dal concorso relegandolo a film di chiusura su una Croisette ormai tristemente semideserta. Anzi, è lo stesso Terry Gilliam il primo a essere perfettamente consapevole del fatto che il suo film sia “brutto”, e lo dice pure più volte, «Chi ha scritto questo film?», nei dialoghi e negli insterstizi di trama, fra autofustigazioni e pellicole a fuoco. Ma sa perfettamente anche che questo non conta, che non è “la bellezza” il punto, e che anzi è in un certo senso proprio nel fallimento (della missione/cinematografico) che risiede tutta l’umanità di Don Chisciotte, tutto il senso più profondo del suo spirito. La discesa nel budget e nelle ambizioni – ma non nella fantasia – non può inficiare la completa e totale libertà del film e dell’autore, né il suo porsi come atto di giustizia, come chiusura di un cerchio, come necessità intima, ancestrale, insindacabile. Ineludibile. E alla quale, per questo, non si può che volere bene.

Non poteva che essere Jonathan Pryce, nel cast sin dalla versione abortita nel 2001 e diventato nel frattempo, con il passare degli anni, «la faccia giusta», a prendere il posto di Jean Rochefort per interpretare l’anziano ciabattino che, spinto dall’identificazione del cinema portata all’eccesso, finisce per convincersi di essere Don Chisciotte. E non poteva che essere Adam Driver, per molti versi erede di Johnny Depp nella capacità di lavorare per accumulo di iperboli senza (quasi) mai sconfinare davvero nel ridicolo, a diventare il regista/Sancho Panza al quale Don Chisciotte passerà il testimone. Nel procedere ora giustificato e ora delirante di episodi surreali, c’è il meglio e il peggio di Gilliam, fra grandangoli dal basso, inquadrature sghembe, scavalcamenti di campo spesso insensati, raccordi che non sempre funzionano, intuizioni a volte geniali e a volte scontate, personaggi introdotti e poi buttati via o quasi, e più in generale ci sono non molte idee tutt’altro che banali, ma portate avanti allo sfinimento, fra presente e passato, fra metacinema e metafore di identificazione, fra finzione/immaginazione e realtà/messa in scena, fra convinzione e palcoscenico, fra regista e pubblico, lungo 131 minuti dei quali forse almeno trenta sono di troppo. Ma, come già detto, non è questo il punto di The man who killed Don Quixote. Il punto sono i mulini a vento come giganti, è la cavalleria come necessità, è il cuore degli uomini, è l’immaginario di Terry Gilliam lasciato libero di esplodere, di creare metafore, di liberarsi, di identificarsi, e persino di chiedere scusa. Scritto insieme al fedele sodale Tony Grisoni (e non è certo un caso che il Sancho Panza protagonista si chiami Toby Grosini, aprendo a tutte le meta-doppiezze fra cinema, autori, immaginazione, realtà, visioni di Don Chisciotte) innervando il testo di Cervantes di un’ulteriore stratificazione mutuata direttamente dal Mark Twain di Un americano alla corte di Re Artù, con il sostanziale viaggio (avanti e indietro) nel tempo del regista/pubblicitario protagonista destinato a riscoprire i suoi ideali, The man who killed Don Quixote è l’ipertrofico viaggio nel cinema e nell’immaginario di Terry Gilliam, regista, disegnatore di bozzetti, tessitore di trame, sognatore.
Gilliam è Don Chisciotte, ma al contempo Gilliam è anche Toby Grosini, colui che per un film giovanile «rovinerà» un uomo e un intero villaggio, colui che finirà per perdersi negli interstizi temporali fino a non saper più riconoscere la realtà e l’immaginazione. Dove l’acqua aveva distrutto la pellicola sul set dei primi Duemila, qui c’è il fuoco a bruciare la pellicola su cui Don Chisciotte ancora riguarda le sue gesta, senza rendersi conto della natura di finzione delle immagini, senza rendersi conto che chi ora crede Sancho Panza nient’altro è che il regista di dieci anni prima, colui che gli aveva chiesto di «essere» Don Chisciotte. Riuscendoci, evidentemente. L’attore diventa il personaggio, i sottotitoli possono essere lanciati via perché passano gli anni ma ci si capisce ancora, il ricordo è il futuro, Quixote vive!, e le disavventure affrontate negli anni nella realizzazione del film entrano come metafore romanzate nella struttura narrativa di The man who killed Don Quixote, come proiezioni sul volto di chi ha realizzato le immagini, e poi come un disastro, la perdita di tutto, anche della dignità. Eppure, quando Javier/Quixote salverà l’innocente Toby/Sancho, finirà per ringraziarlo per averlo trascinato via dal dimenticatoio, dall’anonimato, dalla non-identificazione. Perché quello che conta è identificarsi in Don Chisciotte, vivere le sue avventure, vivere la sua purezza, vivere la sua immaginazione, i suoi sogni, la sua libertà, la sua immortalità fra le braccia dell’illusione. Quello che conta è salire con lui in sella a Ronzinante, portare avanti la lancia, scagliarsi contro il nemico. E ovviamente trovare una Dulcinea, l’amore, il sogno, una donna per cui combattere. E poco importa se si tratta solo di un’allucinazione, se i prosciutti che hanno preso vita si rivelano essere semplici prosciutti, se l’Inquisizione che bussa alle porte è in realtà (per ora) la polizia (razzista) che controlla, oggi come ieri, i cittadini musulmani per il solo fatto che sono musulmani, o se l’«oro spagnolo» trovato fra le viscere di un animale si rivelerà qualche rottame ferroso. Conta crederci.

Fra grotte e interstizi storici, Toby ritrova Angelica, l’amore di un tempo, e con lei ritorna ancora una volta indietro, al ticchettio della Bolex, al bacio, alla consapevolezza di avere una pulzella da salvare. Non più Toby, non più Sancho Panza, ma nuovo Chisciotte, cavaliere senza macchia e senza paura, figlio della propria immaginazione e della propria identificazione, figlio del sogno, figlio della fragilità, figlio della sincerità del cuore. E nuovo Terry Gilliam, la lancia in mano, Ronzinante bendato a correre all’impazzata, la forza della fantasia contro l’essere rimasto intrappolato nel suo film, contro i problemi, contro gli errori di un tempo, contro la sfortuna, l’imprevedibile, l’impossibile. Dai costumi settecenteschi escono smartphone di ultima generazione, quando si arriva al castello, alla rappresentazione finale, alla definitiva inumanità di chi ride dei deliri di chi crede nella sua immaginazione. Don Chisciotte viene trascinato in uno spettacolo, dalla terra alla luna e ritorno, trasformato in attore, in convincimento sulla finzione, in scimmietta allo zoo, perché è la società dell’intrattenimento il vero gigante che si specchia nei mulini a vento. È lo show business del berlusconismo/trumpismo il vero Malambrino, il vero nemico da combattere, il vero e unico “cattivo”, la vera Inquisizione, la vera caccia alle streghe, con tanto di pira montata e Angelica da (non) salvare, fuoco o seta, realtà o illusione, trucco o immaginazione. Lo show business sono i bastoni che da sempre sono stati messi fra le ruote di Terry Gilliam nella realizzazione di questo film, sono i limiti che da sempre gli sono stati posti, sono gli interessi che, ben al di là della sfortuna, hanno falcidiato il progetto per oltre 25 anni. E che ora, finalmente, cadono sconfitti. Il che di per sé rende questo film un piccolo miracolo, una necessaria conquista.
Non è certo un caso che proprio qui, sul palco, Don Chisciotte verrà definitivamente disarcionato, umiliato, deriso, sbeffeggiato, trasformato in oggetto di dileggio, e così riportato alla realtà. La sua caduta da cavallo è la caduta delle illusioni, è il vacillare della sua dignità, è la consapevolezza che «è giunta l’ora di tornare a casa», al ciabattino Javier, conscio però che ci sarà sempre un nuovo Don Chisciotte, di averlo già addestrato, di saperlo pronto per lanciarsi contro i mulini a vento/giganti. Conscio però anche di non poterci arrivare, a casa, perché la realtà sbattuta in faccia a chi sogna non può che portarlo alla morte. Una morte che la società dello spettacolo bollerà ancora una volta come incidente, senza curarsene, senza nemmeno versarci una lacrima, perché the show must go on, e non importa quale. I ruoli sono definitivamente ribaltati, Sancho è Chisciotte, Angelica è Sancho, Terry Gilliam è tutti loro, e non esiste più razionalità, non esiste più “realtà”, esiste solo la follia dell’amore – per lei, per il cinema, per Don Chisciotte e per tutto quello che rappresenta. Terry Gilliam/Don Chisciotte, dopo 25 anni e infiniti traumi, ha vinto la sua guerra contro i mulini a vento, contro la società dello spettacolo, contro i finanziatori che si sono ritirati, contro chi non ci ha creduto, contro chi ha trasformato la sua creatura in film maledetto, e per questo (già) leggendario. E anche questo The man who killed Don Quixote, problematico, rimaneggiato, faticoso, sofferto, probabilmente lontano da quello che sarebbe potuto essere, è l’incarnazione dello spirito che ha sempre mosso il progetto. Uno spirito necessario, condivisibile, ammirevole, strabordante cuore e immaginazione, ben al di là delle sue autoparodie, dei suoi momenti che non attaccano, delle sue derive di senso e di linguaggio cinematografico. Perché, per fortuna, nonostante tutto, «I am Don Quixote De La Mancha, and I will live forever», ed è solo questo che conta. Non possiamo che crederci, sostenerlo, acclamarlo, e forse commuoverci. Sì, commuoverci, anche davanti a un film “brutto”. Perché quello che insegna è fondamentale: non bisogna mai smettere di sognare, di crederci, di combattere, che ci si stia scagliando contro pericolosi giganti o contro innocui mulini a vento, che si stia salvando una pulzella o che si stia per rimanere appesi come (dis)illusi, come ridicoli pazzi, ma sempre ingenui, e quindi profondamente umani. Fino agli applausi.

Marco Romagna