CIVILTÀ PERDUTA – THE LOST CITY OF Z (2016), di James Gray
Il senso ultimo di The lost city of Z, nuovo film di James Gray che giunge alla 67ma Berlinale dopo aver chiuso l’ultimo Festival di New York, distribuito in Italia con il banalissimo titolo Civiltà perduta che annienta ogni potere evocativo di quello originale, è probabilmente da ricercarsi proprio nei cartelli finali che chiudono la narrazione, pronti a disvelare come nel 2005, a distanza di oltre ottant’anni dagli eventi che vengono messi in scena, vi siano stati nuovi ritrovamenti che indicherebbero l’effettiva esistenza della “città perduta di Z”, e con lei la veridicità delle teorie di Percy Fawcett che alla sua ricerca ha in sostanza dedicato tutta la vita. L’uomo, nel frattempo, è andato nello spazio, poi sulla Luna e ora ha messo nel mirino Marte, ma la “vecchia” Terra, nelle sue vastissime zone ancora oggi semi-inesplorate, ha ancora moltissimo da insegnarci e raccontarci, e sta a noi non dimenticarlo e tornare a coglierlo.
Sulle sponde del Rio delle Amazzoni la giungla cresce e fiorisce rigogliosa, nascondendo alla vista e alla mappatura storica dell’uomo, quasi come fosse una coperta di clorofilla, chissà quante culture, chissà quanti manufatti, chissà quanti segni di vita e di evoluzione. A protezione degli uomini nativi, lungo il Bacino, si erge una natura selvaggia e totalizzante, con la quale le comunità indigene vivono da millenni in un rapporto di sostanziale simbiosi.
Tratto dall’omonimo libro di David Grann, giornalista del New Yorker che scoprì la tradizione orale ancora oggi tramandata dalla popolazione amazzonica dei Kalapalo riguardo Fawcett, “il primo uomo bianco” che avessero mai visto, The lost city of Z si fa ancora una volta forte dell’afflato epico tipico di James Gray già pronto a esplodere nei noir metropolitani come nel melodramma, trasponendolo anima e corpo nel più arcano groviglio della giungla. Profondamente antirazzista e antibellico, The lost city of Z è un biopic, è un film d’avventura, è un film storico, è un film di genere e un film prettamente autoriale, ma soprattutto è la messa in scena di una necessità intima di umanità e uguaglianza, è un sogno di reale pace, è la ricerca di una città leggendaria di soddisfazione e gioia eterna pronta a porsi come parabola dell’uomo e dell’umanità tutta, così lontana e(ppure) così vicina. Quella di Percy Fawcett era una missione di mappatura iniziata come tentativo di riacquistare l’onore di famiglia dopo aver subito per anni gli errori di un padre mai conosciuto, destinata a passare per gli interessi economici sul caucciù e per l’orrore di fronte allo schiavismo per diventare a breve, dopo i primi contatti con le civiltà primordiali dell’Amazzonia, un’ossessione fatta di ripetuti viaggi e ritorni, di figli trovati ogni volta cresciuti ma mai, nella giungla, nemmeno per un secondo dimenticati, di una moglie da voler rivedere ogni volta, e poi di un figlio primogenito destinato a vincere le proprie ribellioni per seguire il richiamo del sangue e partire con il padre, mentre la moglie e madre capirà subito di non poter fare nulla contro il destino e l’ereditarietà. Esplorare quelle zone del pianeta è per Fawcett un’urgenza pura e intima, votata all’umanità ma anche e soprattutto a se stesso. E non si tratta di vanagloria: l’obiettivo di Fawcett non è quello di voler passare alla Storia, ma è molto più semplicemente la necessità che ha ognuno di noi di trovare un proprio posto nel mondo. Percy Fawcett trova il proprio senso di appartenenza fra gli indios di quel luogo inesplorato e forse magico, essere umano fra esseri umani ancora puri e senza bandiere, mentre nel frattempo la “sua” Gran Bretagna, dopo l’attentato a Gavrilo Princip, lo mandava a sparare alla Russia un tempo amica e a respirare gas nervino in trincea.
Soldato ed esploratore britannico che la Storia ci consegna come scomparso nel 1925 in circostanze misteriose nel corso di un’esplorazione nelle giungle brasiliane, Percy Fawcett sin dal primo viaggio in Sud America nel 1906 cercò disperatamente di capire le civiltà “selvagge”, cercò di farsi accettare da loro, cercò di entrare anima e corpo in una cultura millenaria e pura, lontana dalle frenesie della nostra società, nella quale nemmeno il cannibalismo è un atto di brutalità, ma l’ultimo estremo atto di rispetto verso i morti la cui carne potrà continuare a vivere nel corpo di chi se ne nutre. Quella di Fawcett è stata una vita dedicata a un qualcosa di più grande, una vita pronta al sacrificio più estremo giocato fra il rischio continuo della morte e quello di non essere più compreso dalla moglie e soprattutto dagli amatissimi figli, lasciati ogni volta indietro per anni. È stata una vita votata a un sogno, quello di ritrovare “la città perduta”, la gemma nel cuore dell’El Dorado, il paradiso terrestre in cui l’uomo, al di là delle terre conosciute, vive appagato nei propri bisogni fisici e materiali protetto dall’oro – giallo e nero – che la Terra stessa gli fornisce in grandi quantità. Una città che lo stesso esploratore battezzò “Z”, l’ultima lettera dell’alfabeto per testimoniare l’ultimo anfratto di civiltà in mezzo a chi, con il senso di superiorità aristocratica dell’inglesotto inappuntabilmente vestito e non ancora scosso dalle Guerre Mondiali, ride delle sue scoperte, e di sicuro non crede che “quei selvaggi” possano avere mai raggiunto un livello paragonabile a quello dell’alta società europea.
Di ritorno dal suo primo viaggio in Sud America, Fawcett si presenta alla Reale Società Geografica Britannica portando frammenti di utensili in terracotta ritrovati nella foresta, pronti a indicare l’esistenza di avanzate civiltà precolombiane che costruivano ponti, case e templi ben prima che portoghesi e soprattutto spagnoli le trasformassero in terra di conquista, rendendo i loro abitanti aggressivi contro “l’uomo bianco” nella difesa dei loro territori e probabilmente, spesso, della loro stessa vita contro i fucili dei colonizzatori. È una sequenza centrale, cuore pulsante di The lost city of Z, che James Gray mette in scena in una conferenza/litigio che è in realtà un gioco delle parti fra la ristrettezza mentale dell’uomo occidentale e le vedute sconfinate dell’esploratore, fra lo schiavismo e l’afflato umano di uguaglianza e scoperta, fra il salotto inglese e chi invece, pronto a sobbarcarsi mesi di viaggio per mare, serpenti, puma, insetti e frecce scagliate dai nativi prima di riuscire a entrare nelle loro grazie a suon di pazienza, regali e passione, basa la propria vita sulla curiosità e non sulle regole prestabilite.
Qualcuno potrebbe essere tentato di classificare The lost city of Z come “opera minore”, e forse, rispetto ai vari e splendidi Little Odessa, Two Lovers e The Immigrant/C’era una volta a New York lo potrebbe anche essere, al solito di molto oltre l’impeccabile dal punto di vista visivo ma forse leggermente meno universale e potente di altre volte, e forse con, sui 140′ totali, qualche minuto di stanca nel corso della narrazione, da ricercarsi per lo più nella fase che sta fra la Prima Guerra Mondiale in cui Fawcett è stato chiamato in trincea e ferito e lo straordinario, quello sì, finale sospeso fra morte, sogno e pura poesia. James Gray, però, è un assoluto gigante, e il “film minore” di un gigante è un qualcosa che la stragrande maggioranza dei registi non riuscirebbe mai nemmeno a pensare, un monumento all’immagine in movimento, un’emozione costante fatta di un utilizzo magistrale del mezzo cinema.
Perché Z è una città ormai persa nelle nebbie delle più antiche leggende testimoniata da una sola pergamena ormai ingiallita e bucherellata, un segreto da disvelare e nel quale immergersi, forse un miraggio, di sicuro una necessità intima e dolorosissima, e nella ricerca della città perduta, James Gray raccorda genialmente gocce di whisky con i treni in corsa e gli ultimi viaggi con i rimpianti che rimangono su un letto, lascia dolcemente deflagrare la sua classe cristallina in una profusione di panoramiche, dolly e dettagli spettacolo per gli occhi e vette emotive che portano in dote tutto l’afflato della grande tragedia americana, sfrutta la magnificenza dei paesaggi sudamericani per, a metà strada fra il Werner Herzog di Aguirre, furore di Dio, il Francis Ford Coppola di Apocalypse now e il Martin Scorsese di Silence, addentrarsi progressivamente in una natura sempre più selvaggia e in popolazioni sempre meno abituate all’uomo bianco. Ma è paradossalmente nelle parti ambientate in Gran Bretagna, nelle battute di caccia e nei dialoghi con una moglie amorevole e paziente che sarà incapace di arrendersi alla morte del marito e del figlio primogenito anche quando saranno passati ormai cinque anni dalla loro scomparsa, nel sentirsi fuori posto del protagonista ai gala dell’alta società militare che continua a rifiutarlo e nei rapporti familiari che non possono prescindere dalla malinconia, nelle riunioni aristocratiche per cercare finanziamenti e nel costante bisogno di ripartire, nel ritorno ferito dal fronte e nel rapporto con il figlio che da attrito diventa legame granitico, che The lost city of Z trova il suo cuore più profondo lasciando che il protagonista viva, come da sempre nel cinema di Gray, il suo desiderio più ancestrale, matto e disperatissimo, declinato questa volta nel credere profondamente nella propria missione e nel sentire sempre più forte il proprio spirito d’appartenenza – alla famiglia, all’Amazzonia, agli amici, ai commilitoni, ai compagni d’avventura, alle tribù incontrate e con cui c’è stato reciproco rispetto.
Fawcett e i suoi pochi e fidatissimi uomini, amici e compagni nella stessa missione di vita (fra i quali un irriconoscibile Robert Pattinson ormai attore semplicemente sublime, al di là del bene e del male), si addentrano nella vegetazione e navigano lungo il corso del fiume, vengono attaccati dai nativi e dai piranha, subiscono ammutinamenti e si salvano la vita a vicenda, riescono a prendere contatto con più d’una popolazione indigena scambiandosi doni e amuleti, vivono quotidianamente in difficoltà linguistiche fra l’inglese, lo spagnolo, le incomprensibili lingue indigene e qualche spruzzata di portoghese, vengono invitati a pranzo dai capotribù nativi e con loro si confrontano. Eppure, “Il cristiano non può essere uno di noi”, e prima o poi “Siamo tutti destinati a morire, sii forte”, mentre Fawcett trascina nell’altra faccia del suo miraggio (o meglio, si lascia trascinare da chi non può che sentire il richiamo del sangue e del destino) anche chi ama, proprio come gli aveva predetto la zingara in tempo di guerra. Percy Fawcett, da quelle terre, non è mai tornato, lasciando espressamente detto di non mandare ulteriori spedizioni per cercarlo. Solo poco tempo fa, dalla tradizione orale raccolta da Grann, sarebbe emerso come suo figlio e gli altri componenti della spedizione sarebbero stati uccisi e dispersi nel fiume, mentre a lui, a causa della sua anzianità, venne concesso l’onore della sepoltura. James Gray, però, nel solco del grande cinema americano da Scorsese a Cimino, non si limita ad addolcirgli la morte, ma racchiude la più pura poetica che la settima arte sa regalare in una bussola, che la realtà ci dice essere stata persa durante l’ultima spedizione, e che viene invece recapitata a chi, anni prima, aveva ricevuto la promessa che ne sarebbe entrato in possesso quando Fawcett avrebbe trovato l’eterna felicità della città perduta, decidendo deliberatamente di non ritornare. Gray regala così al suo protagonista il suo sogno, lo premia fra fantasmi e ambiguità, ma a Z non c’è l’accesso per la macchina da presa, non possiamo vederla, possiamo solo continuare a sognarla come ha fatto Percy Fawcett fino all’ultimo respiro, possiamo solo intuirla in una moglie che si allontana per l’ultima volta addentrandosi nel verde più fitto. Perché, forse, ognuno di noi ha da qualche parte nel mondo la propria personale Z che aspetta di essere ritrovata. Basta crederci fino in fondo.
Marco Romagna