THE LIFE AND DEATH OF COLONEL BLIMP – DUELLO A BERLINO (1943), di Michael Powell ed Emeric Pressburger

«Nel 1985, quando il National Film Theatre ha proiettato la versione restaurata [dai negativi della versione originale di 163 min], Michael Powell e Emeric Pressburger c’erano. E a quello spettacolo quando furono invitati sul palco Michael salì e l’unica cosa che poté dire fu: “40 anni fa”. Questa frase, “40 anni fa”, è la frase che ci porta in un viaggio nel passato nel film, ed era particolarmente adatta per l’occasione perché è un film che parla di tempo, di perdita, di memoria. Ogni volta che lo rivedo, che lo rivisito, più o meno una o due volte all’anno, cresce, diventa molto più durevole, commovente, più profondo.»
Martin Scorsese nella presentazione dell’edizione DVD Criterion di Colonel Blimp, 2013

Guardare oggi Duello a Berlino è un’esperienza particolare, come ogni film degli Archers, Powell e Pressburger, a cui è dedicata la splendida retrospettiva del 36esimo Torino Film Festival. È incredibile come nell’immaginario comune anche dei più appassionati, l’opera omnia della brillante coppia di cineasti britannici sia rimasta pressoché accantonata da molti, se non per qualche iconografia riconoscibile (i fondali di Narciso nero, l’immaginario di Scala al paradiso…) e per un film che, su tutti, rimane probabilmente il più iconico: Scarpette rosse. Negli Stati Uniti, come ben ci ricorda Scorsese che si ispirò a Duello a Berlino per alcune scelte in Toro Scatenato, il film ha una cerchia di seguaci e appassionati, influenzati dal senso di ‘grandeur’ che i due autori sono riusciti a conferire all’opera. Il titolo originale è The life and death of Colonel Blimp: l’ispirazione è un personaggio di una strip satirica, appunto “Colonel Blimp”, che tuttavia poco ha a che fare con i drammatici andirivieni del protagonista, Clive Candy, interpretato da Roger Livesey. Per scenografie, trucco e costumi il lavoro dietro Colonel Blimp è ovviamente gigantesco, e come in altri tra i lavori dei registi è Powell a dilettarsi con giochi prospettici per creare l’illusione di un kolossal oltre il kolossal – e pochi sono altrettanto capaci di creare l’impressione di una narrazione dal mondo mastodontico, non tutti sono David Lean. Ma oltre agli accorgimenti tecnici e a come questi ci aiutino a capire la motivazione dietro l’innegabile e misteriosa capacità che ha Colonel Blimp di inglobare lo spettatore in un’altra dimensione, c’è nell’atto dell’osservazione l’esigenza di comprendere le caratteristiche fondanti di quest’altra dimensione. È una questione nel contempo narrativa e registica, ma non solo: si esce anche fuori dal film stesso, verso il contesto storico. 1943, il secondo conflitto mondiale deve ancora terminare. È ancora vicino, nella memoria della storia del cinema, il ricordo de La grande illusione (1937), uno dei film più celebri di Jean Renoir, un racconto esistenziale e poetico della prigionia durante la Grande Guerra. Nello sguardo del ‘Patron’ del cinema francese, prima della profezia totale e praticamente apocalittica che fu La regola del gioco nel (sic) 1939, il cinema poteva farsi portavoce di un impegno sociale anche prima del Neorealismo, costruendo una ricerca di un messaggio di pace, un sussurro antifascista per scuotere le masse a comprendere il dolore e la complessità filosofica di una questione troppo grande e incomprensibile. La grande illusione è probabilmente la massima rappresentazione di un cinema di guerra ormai completamente inimmaginabile, una guerra galante, uno stilema di rappresentazione impossibile da idealizzare con l’immaginario in cui viviamo, bombardati da immagini digitali che sono promemoria della brutalità della nostra specie (al cui riguardo, un vero trattato filmico lo si può riscontrare in Redacted di Brian De Palma), consci dei danni disumani lasciati dalla violenza del passato, dalla Storia. Powell e Pressburger narrano questo passaggio, con la conseguente cocente delusione verso la Storia stessa ma non verso l’uomo.

Nella logica del cinema bellico, Colonel Blimp è una specie di realizzazione interiore nel mondo occidentale di come la Seconda Guerra Mondiale rappresenti uno scisma nella Storia. La guerra non era neanche finita, il risultato conclusivo era imprevedibile, l’autarchia non redditizia dei lager era una faccenda non conosciuta ai più, o perlomeno non con la quantità di informazioni che abbiamo oggi. Eppure già si era capito che era scomparso qualcosa. Quello di Powell e Pressburger, che sono attenti a non fare un urlo nostalgico e che rimpolpano i dialoghi di giusti accorgimenti patriottici per eliminare l’impressione corretta di un totale antimilitarismo, è un sogno fuori dal tempo; è come C’era una volta in America, un tuffo narcotico in un marasma di ricordi che sembrano sogni con al centro l’epica di un’amicizia indissolubile, o come Peppermint Candy e Viale del tramonto, una graduale scoperta del mondo interiore di un individuo a partire dalla sua disfatta, o ancora come Vertigo, il mistero sentimentale di un oggetto del desiderio che si moltiplica nel tempo e nello spazio. Il mistero più grande del mondo. L’unico vero mistero in Duello a Berlino, un film tutto sommato urlato, calligrafico, prepotentemente narrativo, che non nasconde davvero niente allo spettatore. Ci sono ellissi temporali, montaggi deliranti (incredibile quello che colleziona i tesori da caccia di Candy), e un senso della composizione barocco e teatrale che crea attorno al protagonista un’aura strana, in cui sembra sempre di conoscerlo ma di non conoscerlo davvero. Winston Churchill non voleva che il film venisse pubblicato a causa del suo esplicito senso antibellico, cosa che può sembrare anch’essa assurda a tanti anni di distanza considerando quanto, dal Neorealismo alle avanguardie nei dintorni del ’68 in poi, raccontare la guerra al cinema è sempre o quasi coinciso con la cruda ricostruzione della realtà cruenta del campo di battaglia e dei suoi dintorni. Nobi di Ichikawa, Va’ e vedi e il succitato Redacted sono tre termini di paragone che possono, insieme a Colonel Blimp, velocemente far capire l’evoluzione del genere. Difatti la violenza nel film di Powell e Pressburger si intravede e di rado; anche il “duello” tanto enfatizzato dall’ingiusto titolo italiano in realtà occupa una parte minima del film ed è anzi tagliato al suo climax con una coraggiosissima e intensa dissolvenza che va sui tetti di Berlino. È il punto chiave in cui il film smette di essere l’avventura casuale di un qualsiasi lupo solitario dell’esercito e diventa il confronto tra il macrocosmo del Regno Unito in guerra e il tumulto interiore di un individuo diviso tra amore, odio e amicizia in un dissidio più grande dell’uomo – ma per la macchina da presa è più importante l’attesa, la preparazione. E poi, il risultato. Sono più importanti gli uomini rispetto alle spade con cui combattono. Non trattasi, sia chiaro, di antropocentrismo, quanto di umanesimo dello sguardo a 360°, dalla carta alla pellicola. È, assurdamente, in questo, nell’umanità, che risiede la controversia alla base del film, un vero sacrificio per i due registi che per ultimarlo dovettero rinunciare al titolo di Cavaliere che a loro sarebbe dovuto essere insignito; ed è sempre con questa motivazione, probabilmente, che poi ha dovuto subire tagli su tagli per anni, finendo nel dimenticatoio ingiustamente, riscoperto casualmente da enti televisive americani con un montaggio (sinceramente impensabile) di meno di un’ora e mezza. Per poi rivivere 40 anni dopo, e rivivere per sempre fino a questi giorni torinesi.

Ma forse Colonel Blimp non è neanche un film di guerra. Né un film storico, o un film sentimentale. È uno di quegli oggetti distanti, come Quarto Potere, oramai inclassificabili all’interno di un genere, semplicemente importanti in quanto contenitori di una serie di significati e significanti ancora preziosi. Anche da un punto di vista superficialmente di tipo geopolitico, Duello a Berlino è probabilmente una delle più credibili e precise messinscene di quella che si potrebbe chiamare “inglesità” o “britishness”, dal senso dell’umorismo alle complicazioni burocratiche, dalle ipocrisie all’educazione, dal sentimentalismo alla profondità di sguardo. E oltre a questa superficie, c’è un finale che rende palesi le interiora intime del film. Il punto non è la guerra, non è lo sfacelo di un paese o di un continente, non è la prosopopea dell’amore che si triplica nella linearità degli eventi né l’amico distante che va salvato. O, anzi, sono tutte queste cose insieme, ma in ultima istanza è Clive Candy, il colonnello delle strip che diventa un generale stereotipato, è tutto in lui, in un simbolo impenetrabile in cui la macchina da presa e la macchina da scrivere decidono di entrare completamente, per trovare l’idealista romantico nascosto dietro le rughe del guerrafondaio bloccato in un mondo che si sta evolvendo e autodistruggendo. Blimp è un film puro, musicale e roboante, ma verso la fine diventa sfocato, impreciso, si sposta dagli edifici distrutti e dagli eserciti in marcia e diventa una contemplazione momentanea di un istante minimale e nel contempo profondissimo. Forse simbolico, forse anti-simbolico, sicuramente diretta rappresentazione di una sensazione che rende comprensibile l’intera costruzione: si arriva dal far nascere un mondo incredibile al farlo scomparire nel suo volto principale. E qui Powell e Pressburger lo fanno in modo diretto e magnifico, al punto che, nuovamente, pare incredibile che i fotogrammi di questo film non compaiano sulle copertine dei manuali di storia del cinema. Quanti sogni dovranno nascere e morire, prima che la triste urgenza esistenziale che i due autori mettono in campo con meno filtri possibile (per gli standard del cinema industriale dell’epoca…) venga davvero accettata ed espansa?

Nicola Settis