«May your hands always be busy
May your feet always be swift
May you have a strong foundation
When the winds of changes shift
May your heart always be joyful
May your song always be sung
And may you stay forever young
May you stay forever young»Bob Dylan, Forever Young
«This film should be played loud!». Non un semplice invito ad alzare il volume, non (solo) un’esplicita richiesta di Martin Scorsese per i proiezionisti, ma un ben preciso intento programmatico, tanto del rock quanto del cinema che lo immortala per raccontarlo, sviscerarlo, viverlo, consegnarlo al futuro per lo meno come ricordo, come illusione, come quell’utopia unica e irripetibile che era stato così bello vivere e così inevitabile veder (già) virare in nostalgia. Del resto sta in un certo senso proprio nell’alto volume, l’innesco della macchina del tempo di The Last Waltz. Sta nell’immersione che annulla i decenni passati e fa ritornare ancora oggi a quella sera, su quel palco, fra quegli amplificatori, in quella straordinaria e irripetibile carrellata di generi e superospiti fra le nottate più leggendarie del rock. Per film intriso di una profondissima nostalgia sin dall’ideazione e dall’organizzazione dell’ultimo maxiconcerto con cui i cinque straordinari polistrumentisti di The Band, dopo 16 anni ininterrotti in tournée da soli e a supporto dei più leggendari artisti dei Sessanta e dei Settanta da Dr. John a Bob Dylan, avevano deciso nel novembre del ’76 di dare l’addio alle scene prima di rischiare di ritrovarsi totalmente fagocitati dalla vita nomade del musicista. Un gran finale con cui congedarsi, non per un esaurimento della vena artistica, ma per la consapevolezza della fine sempre più vicina di quel mondo senza più coordinate che si stava rapidamente consumando fra troppi amici persi per strada, donne in ogni porto e abuso di sostanze stupefacenti; per la netta percezione che l’alchimia di quei tempi miracolosi dei quali erano stati pietra miliare si fosse oramai esaurita per non poter tornare mai più. Non sarebbe stato tanto l’avvento del Punk a sparigliare le carte, quanto l’arrivo degli anni Ottanta con la loro digitalizzazione e con i loro videoclip (non a caso anticipati da Scorsese con i due live in studio), con le definitive esplosioni del pop e con il rock costretto a ritagliarsi una nicchia sempre più alternativa, con i vinili a ridursi di formato e imbarbarirsi nei CD, con la pellicola ad abbassare costi e qualità prima nelle linee interlacciate del nastro magnetico, e poi nel definitivo avvento del digitale. Un qualcosa che non era ancora avvenuto, ma che già al tempo si percepiva essere dietro la porta, desideroso di prendere il posto di quel mondo che stava morendo. Filmare quello specifico presente che per molti versi era già passato era l’unico modo per poterne consegnare almeno qualche traccia al futuro, quando quegli anni sarebbero stati ormai lontani nel tempo e la musica sarebbe stata irrimediabilmente diversa. È probabilmente per questo che The Last Waltz inizia dalla fine, dall’ultimissimo bis eseguito ben oltre le due di notte, per poi ritornare all’inizio della serata e, fra uno stralcio di intervista che torna ai primi ricordi in tour insieme e una visita di Scorsese allo studio di registrazione, ripercorrerla cronologicamente ancora una, cento, infinite volte, tutte quelle della riproducibilità del cinema, tutte quelle in cui verrà ancora alzato il volume. Dal 1978 dell’uscita fino a oggi, con la presentazione in pompa magna fra i Classici Restaurati del 75mo Festival di Cannes.
Basterebbero i falsetti di Richard Manuel che canta dietro al piano, basterebbe la Fender ipertecnica ma mai inutilmente virtuosistica di Robbie Robertson, basterebbe la voce calda di Levon Helm che spunta da dietro la batteria con in mano il suo mandolino, basterebbe il talento cristallino di Garth Hudson (con le sue lezioni di musica obbligatoriamente impartite agli altri componenti del gruppo, unica possibile giustificazione con la famiglia ultraborghese per aver studiato musica classica e poi essersi unito a una rock band) che si sdoppia fra tastiere e sassofoni in un miracoloso equilibrio fra i generi musicali più disparati, o ancora basterebbero i passaggi del tenebroso Rick Danko dal basso alla voce e dal contrabbasso al violino, curiosamente tenuto sull’avambraccio anziché sulla spalla. Tutti figli in qualche modo di Memphis, come spiega in uno stralcio di intervista Levon Helm, di quello straordinario meltin’ pot che un paio di decenni prima si era venuto a creare fra blues, bluegrass e country dando vita al rock’n’roll. Allo stesso modo, The Band era partita dal rock’n’roll per trasformarlo in una consapevole «bittersweet celebration of old & young americas» sospesa fra il passato e il presente, fra la tradizione e la novità, fra il folk e il gospel, fra il rockabilly e il country, fra il Tin Pan Alley Pop e il soul, fra il cajun e il ragtime, fra il rhythm and blues e il prog psichedelico. Un vero e proprio viaggio caleidoscopico in più di un secolo di musica filtrato attraverso l’esperienza dei Sessanta e dei Settanta, del quale The Last Waltz è stato il consapevole ultimo miglio, il canto del cigno, il definitivo fuoco d’artificio con cui mescolare ancora, un’ultima volta, fino a unire perfino gli eterni nemici Beatles e Rolling Stones con Ringo Starr e Ronnie Wood a suonare insieme con tutti gli altri ospiti della serata la I shall be released finale. Più di un concerto, più di un film-concerto, ma forse il modo migliore per dire addio, accompagnati dai vari «molto più che amici» Ronnie Hawkins, Joni Mitchell, Dr. John, Neil Diamond, Van Morrison, Eric Clapton, un Neil Young tanto perfetto nell’esecuzione di Helpless quanto evidentemente su di giri (leggenda vuole che gli sia stata cancellata in postproduzione un’evidente macchia di cocaina da una narice), e soprattutto il vero e proprio direttore d’orchestra Bob Dylan (tanto sul palco con le sue variazioni alternative improvvisate quanto in camerino: è semplicemente Storia la trattativa dell’ultimo minuto dei produttori e di Scorsese per poter filmare parte della sua esibizione dopo che il futuro premio Nobel aveva all’improvviso cambiato idea e negato la liberatoria, preoccupato che The Last Waltz avrebbe potuto in qualche modo oscurare la futura uscita del suo Renaldo and Clara effettivamente allo stesso modo sospeso fra rockumentary e rockudramma), ai sempre più usuranti palchi in giro per l’America, alle migliaia di miglia da percorrere, allo stress “curato” con le droghe rischiando di autodistruggersi, a una vita «impossibile, pericolosa, assolutamente da smettere». A costo di scegliere di rinunciare (almeno per un po’: The Band si riformerà solo nel 1983 senza Robertson) a suonare insieme, ma mai alla musica, perché la musica guarisce il corpo e l’anima, fa sentire bene, aiuta chi la ascolta ad andare avanti, e mai avrebbe potuto smettere di essere la missione di vita.
Un qualcosa che sapevano benissimo tanto i componenti di The Band quanto il giovane Martin Scorsese, che con le riprese di The Last Waltz di fatto inaugurava una sorta di carriera parallela da “rockumentarista” dylaniano, proprio come Bob Dylan tanto abilmente sospeso fra realtà e narrazione che perfino la pura finzione di New York New York, presentato nel ’77 prima che il regista concludesse il montaggio di The Last Waltz, può esserne a pieno diritto considerata un prologo sognante. Non è un caso che proprio a Bob Dylan Scorsese dedicherà in futuro sia la realtà (?) di No direction home (2005) sia la finzione, o meglio il racconto di fantasia che si innesta nel reale, di Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese (2019), o che passando per gli Stones di Shine a light (2008) e per il George Harrison di Living in the material world (2011) allo stesso modo parta dall’arte musicale per ragionare su tutte le arti, sulla necessità di esprimersi e su quella di raccontare, sulla verità e sul falso storico. Un falso che a ben vedere era già presente pure in The Last Waltz, con l’illusione di potenza vocale a vedere i cori lanciati da Robertson nel microfono spento, abituale compagno di palco necessario per fare scena senza saturare eccessivamente lo spettro sonoro. Portando in nuce quello che Martin Scorsese, scelto al tempo dai produttori e da Robertson un po’ per il suo lavoro di assistente alla regia e supervisore del montaggio di Woodstock e un po’ per lo straordinario utilizzo della musica nel suo Mean Streets, avrebbe poi sviluppato nei decenni successivi. È così che The Last Waltz, celebrando una scintillante fine, ha finito per trovare un nuovo inizio altrettanto luminoso. Forse lo stesso con cui ricominciare lungo lo scorrere dello stesso ciak le frasi sbagliate, dette male, in quelle domande ripetute con cui sin dall’inizio e non certo per caso la macchina cinema entra prepotentemente in campo fra l’intervistatore Scorsese che incalza in prima persona i musicisti e le altre macchine da presa – ben 7, tutte rigorosamente 35mm, manovrate da mostri sacri della direzione della fotografia fra cui Michael Chapman (Taxi Driver, Toro scatenato, Hardcore di Schrader), Vilmos Zsigmond (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Blow Out, I cancelli del cielo, Il cacciatore, McCabe and Mrs Miller) e László Kovács (Easy Rider, Cinque pezzi facili, il già citato New York New York, quasi tutti i film di Peter Bogdanovich) – che spesso durante il concerto appaiono sullo sfondo, intente a filmare oppure a ricaricare un rullo da far girare ancora e ancora negli ingranaggi. Solo così, attraverso il cinema, la musica può continuare in un loop infinito, come una necessità, come una terapia, come un qualcosa che non può terminare con un ritiro dalle scene, né tanto meno con i titoli di coda. Nemmeno 56 anni dopo. Si può solo alzare il volume, e senza nemmeno rendersene conto ritrovarsi ancora a cantare.
Marco Romagna