THE LAST PAINTING (2017), di Chen Hung-i
Taipei è sempre la stessa. Certo, sono passati più di trent’anni dai capolavori di Edward Yang e oltre venti dai primi di Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang, le Vespe Piaggio che popolavano come uno sciame la città hanno ceduto il passo agli scooter monomarcia, non sono più i tempi del boom economico e delle fascinazioni occidentali selvagge, e probabilmente alcune strade sono più moderne e collegano palazzi forse ancora più colorati. Ma la fisionomia dell’isola di Taiwan e delle sue città è sempre quella, e così è sempre quella la sua atmosfera solare eppure cupa, confusionaria ed espressionista, come sono sempre quelle le sue mille anime e sono sempre quelle le sue profonde e ambigue contraddizioni. È il giorno delle elezioni politiche quello in cui si apre The last painting, nuovo lavoro con cui il regista Chen Hung-i presenta nella sezione Voices del Festival di Rotterdam la sua riflessione sul ruolo che dovrebbe avere – e a suo avviso non ha più – l’arte nella politica.
È il 16 gennaio 2016, il giorno in cui ha vinto la leader donna dell’ala progressista, da sempre separatista nei confronti della Cina, Tsai Ing-wen. Da alcuni mesi, in giro per le città erano molte le manifestazioni di piazza fra i filocinesi e chi invece vorrebbe il distacco totale da Pechino, e non è forse casuale che Yang Chieh, la studentessa di scienze politiche sul cui orribile ritrovamento, composta in un quadro espressionista e con gli occhi asportati, indaga ora la polizia, fosse andata qualche mese prima a vivere come coinquilina del suo assassino. Jhiong Jiang Ze, del quale il film mai nasconde il suo ruolo di omicida, è un talentuoso pittore che ha voltato le spalle al suo passato di attivista politico, ormai chiuso nei suoi capelli lunghi forse mai più tagliati con i quali si è creato una sorta di fortino nel quale sopravvivere al proprio passato e alle proprie frustrazioni rimanendo chiuso alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, ma la passione politica della studentessa sarà per lui lo scoperchiarsi del vaso di Pandora. Il pittore rasenta la follia in seguito alle sevizie subite in passato dalla polizia, è costantemente depresso e al lavoro su un nudo femminile che passa per 7 versioni, e nemmeno le sue robuste razioni di rumoroso sesso notturno con la ballerina San San lo riescono a scuotere dal suo limbo. È lui che adesso ha gli occhi della giovane in una scatola, in attesa di mescolarli insieme alla pittura a olio nera, in attesa di farli diventare ispirazione mortifera per l’ultimo quadro, The last painting, quel numero 1 di una serie sui sette peccati capitali che accompagnerà la narrazione nella sua scatola di flashback.
Si dipana nel corso di quattro mesi, The last painting, desaturato ai limiti del bianco e nero al momento del presente, quando l’omicidio è già stato commesso e non c’è più spazio per il colore dell’arte, e invece saturo di colori carichi come quelli dei dipinti nel corso delle analessi. Si dipana nel corso di quattro mesi, dall’arrivo della studentessa a casa del pittore al mutismo dell’omicida di fronte alla polizia, reo confesso mentre la sua donna e complice guadagna ancora, e sempre di più, dalla sua arte. In mezzo, con le possibilità politiche che emergono dai quadri con animazioni che ricordano i lavori in 3D sull’arte di Peter Greenaway, The last painting è un atipico thriller psicologico nel quale ogni persona ha il suo lato oscuro, e in giro per Taipei continuano a esserci solo anime fragili, conturbanti e disturbate. Dalle incertezze nel rapporto fra Yang Chieh e Jhiong Jiang Ze, in un’iniziale contrapposizione fra arte e politica che sembra lentamente iniziare ad affievolirsi fino a una nuova coincidenza ma anche alla svolta inaspettata, tragica e violenta, emerge come ognuno non faccia altro che mentire a se stesso. Lo fa il pittore, ormai talmente impaurito di fronte alla politica da rifiutare persino la televisione perché “Tanto è tutta spazzatura”; lo fa Yang Chieh, mentre spia il sesso altrui per tentare di dimenticare le “attenzioni” subite dal padre ma nel frattempo rifiuta il suo capo fino a un nuovo tentativo di stupro; lo fa San San, pronta a insegnare quotidianamente alle bambine il gesto perfettamente aggraziato e nel frattempo a darsi alle performance sessuali più sfrenate con il pittore, quando non è addirittura impegnata in una crisi isterica di bulimia e vomito; e soprattutto lo fa Nana, amica del cuore di Yang Chieh impiegata in un negozio di lingerie che, da apparente santarellina bionda, si scoprirà essere prima una trasgressiva frequentatrice di locali, e poi una transessuale in crisi di identità che chiede in lacrime alla sua amica di tagliargli il pene per donarle un corpo nel quale riconoscersi.
The last painting è un viaggio in una pittura nervosa, fatta di scatti di rabbia e di grosse pennellate sulla tela, fatta di dolore e di isteria, fatta di protesta e di dolore, fatta di quell’impegno politico che le opere d’arte dovrebbero tornare a incarnare, come quel vecchio trittico sulle forme di governo che ormai ha lasciato apparentemente posto a forme più astratte e a una pittura che si fa via via più cupa. Mentre lei svolge ricerche sui migranti e studia i diritti delle donne, in una camminata notturna forzata da un ostacolo sui binari della metropolitana e dalla fine del carburante nel serbatoio della moto di Jhiong Jiang Ze accorso a prenderla, la studentessa idealista e il pittore disilluso si avvicinano, come a voler combattere insieme l’avarizia e le storture del mondo. È un avvicinamento che sembrava impossibile e che invece diventa troppo stretto, come un rapporto sessuale mai voluto, come uno scalpello che entra nei bulbi oculari e li asporta, come se quegli occhi avessero visto troppo, ma al contempo come se solo dalla loro visione e capacità di guardare potesse nascere il quadro definitivo, l’ultimo, quello che un bambino cieco, incapace di vederlo, percepirà comunque al tatto, e sulla sua immagine ricostruita potrà andare avanti verso il futuro. Come l’arte, distaccandosene, ha ucciso la politica, il pittore finisce per uccidere la studentessa, come una chiusura del cerchio, come una necessità artistica, come un colpo di coda di una politica che non accetta teste troppo pensanti. Come a evitarle le disillusioni, come a regalarle l’immortalità trasformandola in arte, come a salvarla da se stessa e dal suo caos di idealismo e frustrazioni.
È tanta la carne che viene messa sul fuoco, dalla questione mai del tutto risolta fra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese al ruolo dell’artista, passando per l’identità sessuale, l’umiliazione, il femminismo, la gelosia, il delitto e il castigo. The last painting, in questo, lascia volutamente sfumate le conclusioni, lasciando che le suggestioni continuino a maturare e a crescere separatamente nello spettatore. Il film è un quadro espressionista, è un mosaico di complessità, è uno sguardo su una Taipei che procede, ma che ancora non sembra aver trovato la propria reale identità. Fra arte e politica, Chen Hung-i ha trovato una zona d’ombra in cui innestare le proprie riflessioni, confezionando un film d’atmosfera, immersivo e filosofico, oscuro e simbolico, seducente e ambiguo. Un film che parla d’umiliazione, di informazione, di arte, di politica, di immigrazione, di frustrazioni sfogate nella pittura, di giri in moto e di pioggia battente. Un film su chi ha perso la speranza nella vita, e che solo l’arte potrà salvare per sempre, come la versione definitiva del quadro più importante e sofferto di una vita, come l’ultimo atto di un amore disperato, o forse solo come l’esposizione più impietosa del lato oscuro della natura umana.
Marco Romagna