THE LAST OF US (2016), di Ala Eddine Slim

A volte, di fronte a una tragedia come quella che vede quotidianamente centinaia di cittadini magrebini lasciare tutto per mettersi in viaggio in imbarcazioni di fortuna – buona parte delle quali mai giungeranno a destinazione – alla volta dell’Europa, serve un momento di stasi, serve un momento di riflessione e riscoperta, serve un momento di silenzio, o forse un intero film in silenzio. Come nel caso del primordiale e metafisico The Last of us, folgorante esordio al lungometraggio di finzione per il (già) documentarista tunisino Ala Eddine Slim, che nel mettere in scena l’allegoria del salto nel vuoto di ogni migrante attraverso il viaggio di un anonimo clandestino elimina totalmente la parola fino a destrutturare persino i caratteri della scrittura araba, trasformata nelle pochissime didascalie presenti a spezzare il film nei suoi due tronconi – fisico e metafisico, storia e mito, viaggio e riscoperta – in una traslitterazione geometrica di linee tonde. Aprendo alla pura potenza magnetica delle immagini, in un linguaggio profondamente narrativo eppure per molti versi visivamente assimilabile a quello di Michelangelo Frammartino, a quello di Terrence Malick, a quello di Nikolaus Geyrhalter, a quello di Franco Piavoli, a quello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, The last of us è un poema visivo profondamente estetico e mai estetizzante, è un viaggio nel tempo e nell’intimità del dolore, è un linguaggio cinematografico fatto di occhi, sudore e cuore: la parola, per fare grande cinema, può in alcuni casi essere superflua, a volte basta la poesia insita nell’immagine, basta l’intensità di uno sguardo, basta un paesaggio, basta un quadro, un rumore sordo, un sospiro.

Poco oltre la metà di una Venezia, quantomeno nel concorso principale, ancora troppo altalenante in attesa di sparare quelli che – da Pablo Larraìn a Lav Diaz, passando per Andrei Konchalovsky – parrebbero almeno sulla carta essere i calibri più grossi, le visioni più appaganti stanno puntualmente arrivando dalla sezione parallela e indipendente della SIC, la Settimana Internazionale della Critica giunta quest’anno alla sua trentunesima edizione. Nel momento in cui la sezione ufficiale di Orizzonti ha da diversi anni perso la propria coerenza di percorso diventando una semplice raccolta di film “strani” e, salvo poche eccellenze, in buonissima parte trascurabili, le opere prime della SIC si configurano invece come l’ultimo reale barlume del lavoro di ricerca rimasto a una Mostra che preferisce in genere ospitare nomi già sdoganati e navigati, riportando almeno in una sezione indipendente quella necessaria centralità dei film troppo spesso lasciata cadere dalle selezioni ufficiali. Quella intrapresa dalla commissione di critici diretta da Giona Nazzaro è una strada che, a metà del percorso, si sta decisamente delineando nel solco di una ricerca volta a cercare tematiche e linguaggi cinematografici in grado di rimettersi sempre in discussione partendo dall’umanità: i film della SIC 2016 si concentrano sul rapporto fra l’uomo e la società, fra l’uomo e il luogo, fra l’uomo e la natura, sempre alla (ri)scoperta di se stessi per ritrovare tutti noi.

Non sappiamo nulla del protagonista di The last of us, sappiamo solo che è in fuga, prima disperso nel deserto algerino insieme a un compagno di viaggio che verrà presto arrestato, e poi da solo, dalla barca alla giungla, a entrare progressivamente in simbiosi attraverso l’aiuto di un misterioso e barbuto mentore con una natura al contempo magnanima ed esigente. Una natura che dà e che prende, che nutre e che scalda, ma che può anche ferire e pretendere cura e dolore, una natura dalla quale ricostruire una nuova vita, una natura della quale entrare a fare parte, o forse semplicemente nella quale sparire come in una definitiva simbiosi. The last of us, nel porsi al di fuori dallo spazio e dal tempo, è un cinema magnetico e pulsante che parte da una storia immaginata come spersa da qualche parte nella Storia per poi inoltrarsi nel mito, e quindi nel paradigma più universale, primigenio e intimo dell’uomo. È un’opera prima che osa, colpisce, sperimenta. E che brilla, insieme al capitale Monte di Amir Naderi di cui si pone come una sorta di ideale controcampo tematico, come un nuovo sole cinematografico su questa Venezia. Ma mentre in Monte la montagna è un ostacolo verso il sole, monolito da distruggere con la forza delle persone unite, in The last of us è invece, al contrario, proprio la società l’ostacolo da superare per tornare al mondo primigenio e puro: un mondo senza più differenze economiche, sociali e culturali, un mondo libero nel quale camminare liberamente, un mondo da riscrivere ripartendo daccapo, dagli alberi, dagli animali, dalla solitudine. Dall’e(ste)tica.

The last of us è una fuga dalla razza umana nella quale, dai passi trascinati nel deserto come negli incipit di Tariq Teguia, si arriva alla strada sempre in curva solcata dalle auto, fino alla legge che spazza via la giustizia e alla fuga via mare verso la foresta, eterno ritorno agli elementi naturali come ultimo salvifico rifugio. Ala Eddine Slim incastona il proprio protagonista nello scorrere dei ruscelli, nel volo degli uccelli, nel suo stare seduto su un ramo in attesa di qualcosa, o forse semplicemente di se stesso. Nemmeno la bussola funziona più, come se non esistessero più un nord e un sud, come se i campi magnetici fossero diventati sfuggenti, come se il (nuovo) mondo fosse una tabula rasa, un foglio bianco sul quale iniziare a scrivere una nuova vita. Il protagonista cade in una trappola, sanguina per un ramo che si conficca nella sua coscia, si spaventa per le inquietanti carcasse degli animali, e appena riuscirà a uscire dalla buca troverà l’unica presenza umana di questo (non) luogo magico pronta a curarlo e accudirlo. Non si sa chi sia il barbuto uomo misterioso, né ci importa, adesso è semplicemente il nuovo compagno di viaggio: il primo incontro sono sguardi, sporcizia, denti marci, un machete con il quale mondare il coniglio da preparare per cena, usandone poi le pelli come abito. L’uomo, senza dire una parola, insegna al protagonista a scoprire la natura, ad amarla, a rientrare a far parte del ciclo della vita. Forse è l’impersonificazione stessa della natura, forse è un santone, forse è un uomo primitivo, forse è lo stesso protagonista da vecchio, forse è un’entità divina, forse è un altro esule con cui scambiare il testimone: di sicuro è una figura al contempo mitologica e classica, una guida, una presenza, un Tiresia muto anziché cieco, un Virgilio cinto di pelliccia anziché d’alloro, che ora, dopo aver esaurito la sua funzione, giace ferito al volto, con gli occhi sbarrati in attesa che il protagonista dia fuoco alla pira. The last of us è un viaggio sospeso fra la catarsi e la (ri)scoperta, fra la coscienza e la redenzione, fra l’uomo e il bosco, è un film teso a restituire un lampo di umana giustizia ai troppi esuli di cui non si sa più nulla. Il protagonista caccia gli animali e appicca il fuoco coi legnetti, mentre Slim mostra, in un crescendo poetico che lo rende totalmente opposto al cinismo del Safari secondo Seidl, un uccellino che esala gli ultimi respiri sbattendo le ali nella terra. Fino a quando la luna inizierà a inseguire il protagonista, come in una magia, come in un’illusione, come in un dialogo muto nel quale basta guardarsi per capirsi. È una luna che non vuole precipitare sulla Terra, ma che segue i movimenti dell’uomo come per vederlo meglio, come per proteggerlo, come per rischiarargli il cammino nel buio della notte. La simbiosi è ormai completa, totale, metafisica, fra i latrati di un misterioso lupo e lo stormire del vento fra i ramoscelli. Fino al ritorno della notte, e poi ancora del giorno, l’eterno scorrere del tempo: è giunto il momento della dissolvenza, della sparizione, della sublimazione. È giunto il momento di cambiare forma, unica via per continuare a esistere. E per noi, da spettatori, è più semplicemente il momento di applaudire un esordio straordinario.

Marco Romagna

Edit: Vincitore del premio Leone del Futuro per la Migliore opera prima di Venezia73