Non si sa se Kamagasaki debba il proprio nome alla gigantesca pentola kama che secondo leggenda sarebbe stata usata in antichità per estrarre il sale dall’oceano oppure all’abitudine dei lavoratori a giornata, oggi come ieri sfruttati e marginalizzati da un Giappone ben lontano dall’equità sociale, di impegnare ogni mattina la propria tradizionale pentola da riso per poi riscattarla una volta ricevuto (?) il salario. Quello che è certo è che fra i calderoni kama e Kamagasaki, baraccopoli di Osaka da sempre fucina di povertà e disperazione, sostanziale ghetto sottoproletario di ciclici moti sociali e di quotidiana necessità di arrangiarsi stretto fra le pressioni della criminalità e le ripetute violazioni dei più basilari diritti umani da parte della polizia, la correlazione è sempre stata strettissima. Il calderone è un simbolo, è un qualcosa in cui identificarsi, è un qualcosa per cui lottare, se non altro per la colossale kama che ogni giorno campeggia nel centro per i bisognosi, con cui ogni giorno vengono preparati e distribuiti migliaia di pasti caldi gratuiti ai senzatetto, alle puttane irregolari, ai venditori ambulanti, ai più tragicomici ladruncoli e ai più improbabili e sporchi carrettieri che girano tutto il giorno alla ricerca di rifiuti e metalli da rivendere. Non è però quella pubblica, per quanto centrale sia nell’intreccio narrativo sia nei brandelli di purissimo documentario che il nipponico Leo Sato dissemina lungo il percorso del suo sorprendente esordio alla finzione, la kama su cui nasce la “guerra” di The Kamagasaki Cualdron war, presentato in concorso nell’edizione 2019 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Il punto di innesco sta nel furto della kama cerimoniale della locale famiglia yakuza, fondamentale per il passaggio di consegne fra il vecchio e moribondo boss e il figlio che – inizialmente senza particolari entusiasmi, poi con la consapevolezza di essere l’unico in grado di salvare la Kamagasaki in cui è cresciuto e in cui si è innamorato dall’accordo fra potentati per sloggiare gli abitanti e trasformarla in attrazione turistica – gli dovrebbe succedere. Una kama destinata a diventare guerra fra poveri e poi potentissimo strumento politico ed economico, borsa infarcita di banconote, simbolo del potere nelle mani di chi non ha idea di cosa significhi né di quanto sia importante per tutti restituirla, e infine fondamentale scintilla per l’ennesimo riscatto – politico e sociale – del popolo che dimentica le differenze interne e si compatta contro chi realmente lo schiaccia. Perché è un intero popolo, quello di Kamagasaki che Sato, fra attori autoctoni non necessariamente professionisti, istanti drammatici disseminati di guizzi comici, virate nell’assurdo e nello spiazzante, dialoghi sovraccarichi e assordanti silenzi, sapiente alternanza di serio e faceto, canzoni diegetiche e animalesche danze cimiteriali, informazioni incomplete e fraintendimenti di ogni protagonista, triangoli amorosi e percorsi morali, atavici rancori e vecchie cicatrici ai testicoli, straordinaria partecipazione emotiva e ponderata coscienza politica, dipinge sullo schermo in un preciso, coerente e umanissimo affresco al contempo antropologico, sociale e sentimentale. Un popolo che vive di espedienti in un luogo fatto di leggi proprie, povertà e dignità quotidianamente calpestata, un popolo ferito, umiliato ed esiliato dal governo della prefettura di Osaka che preferisce fingere che Kamagasaki non esista, considerando la banlieue solo la sezione centrale di quattro diversi quartieri, impedendone l’uso del nome nelle mappe ufficiali e quando possibile censurandolo nei media, e forse proprio per questo un popolo con un così profondo orgoglio e con un così radicato senso di appartenenza, storicamente pronto alla ribellione, alla lotta, al tumulto, alla Resistenza, a ricompattarsi e a rialzare la testa di fronte ai soprusi. Oggi come ieri, senza tempo, fuori dal tempo. Proprio come è orgogliosamente fuori dal tempo, sin dalla magnifica pasta ipersatura e volutamente anacronistica delle immagini 16mm, sin dal lungo e apertamente politico cartello iniziale che introduce al ghetto più oscuro di Osaka, sin dalla primissima inquadratura che precede per le vie del quartiere la sfavillante gonna rossa della prostituta in bicicletta, The Kamagasaki Cualdron war. Un film che non parte con la stella rossa armata della Wakamatsu Production né con l’infrangersi dell’onda sugli scogli della Toei, ma che dalla sua piccola produzione indipendente, per tematiche, sguardo, inquadrature, montaggio, cromatismi e modalità narrative, guarda apertamente a quel miracoloso cinema di rottura, schietto e politicissimo, che fu la Nuberu Bagu di Nagisa Ōshima, di Shōhei Imamura, di Kōji Wakamatsu e di Masao Adachi, che appare in prima persona come attore per scavare, dopo la militanza con la United Red Army nipponica, dopo i ripetuti arresti e gli anni di carcere per terrorismo e per violazioni assortite delle leggi sui passaporti, un tunnel che almeno nella finzione lo possa far evadere dalla realtà e riportare alla Palestina del suo combattere infinito.
L’ambizione di Leo Sato è quella di riportare in vita un cinema che nessuno fa più, eppure sempre attualissimo e fondamentale nel suo occhio neorealista sul caos, sui reietti, sui soprusi, sulla criminalità, su quel substrato sociale che il capitalismo preferisce confinare nell’ombra, nel silenzio, nel tabù, nella vergogna da nascondere, salvo poi magari convincersi che la zona in cui lo ha confinato sia perfetta per la successiva speculazione edilizia in nome della quale distruggere il ghetto e chi lo abita. Fino alla nuova ribellione, alla nuova sommossa, al nuovo sovvertire, magari interrotto dalla nuova lotta fra poveri nel momento in cui volano banconote, ma pronto a tornare limpido come una coscienza di classe nel momento in cui una parola sbagliata riaccende la miccia. Le auto inquadrate sono nuovi modelli, contemporanei, di oggi, si parla apertamente del terremoto e delle radiazioni nucleari di Fukushima come di un recente passato, e soprattutto si nominano le prossime Olimpiadi di Tokyo 2020, temporalmente vicine a The Kamagasaki Cualdron war proprio come quelle del ’64 erano temporalmente vicine al 1960 in cui Ōshima realizzò Il cimitero del sole e ancor più al 1963 in cui Imamura diede vita alle sue Cronache entomologiche del Giappone. Ed è proprio lì che si vuole tornare, a quella viva e crepitante umanità repressa e dignitosissima, a quel ribollire dei quartieri più degradati, a quei mutamenti sociali in odor di lotta di classe, a quella libertà assoluta nell’ingarbugliare e stratificare gli intrecci narrativi fra musica, danza, sensualità e linguaggi del corpo, e non certo in ultimo a quella ben precisa dialettica politica, marxista, idealista, rivoluzionaria e resistente della Nouvelle Vague nipponica. Perfettamente consci, però, di essere moderni in epoca postmoderna. Un’epoca di citazionismi estremi, di consapevoli manierismi che diventano punto di partenza per rielaborazioni e riattualizzazioni, di destrutturazioni che diventano nuove e inedite costruzioni, ma anche un’epoca, per molti versi drammatica, di mancata presa di coscienza, in cui la collettività è ormai anestetizzata dall’egoistico guardare in casa propria, dall’individualismo più sfrenato, da quella cultura dell’odio e del sospetto che fomenta come benzina sul fuoco ogni guerra fra poveri per distogliere l’attenzione delle vittime dalle ingiustizie sociali che le colpiscono. Ed ecco quindi l’ironia, a tratti apertamente surreale, a tratti più vicina alla commedia degli equivoci, che giunge a innervare di nuove stratificazioni il dramma sociale e il discorso cinematografico e politico di Leo Sato, a concentrarsi sulle contraddizioni della contemporaneità, sul superamento (o forse sarebbe meglio dire sulle possibilità di portarla realmente avanti che la Storia ha negato) della dialettica utilizzata anche nella più piena attualità delle osservazioni politiche, e quindi a rendere in un certo modo nuovamente concrete le astrazioni di Marx, come una mano che afferra una caviglia fermando una silenziosa fuga, come una lotta ad accaparrarsi ogni possibile (e impossibile) kama profumatamente pagata dagli yakuza alla ricerca di quella perduta, come una pioggia di denaro che distrae ancora una volta i singoli dalla collettività, come una radice di ravanello messa sul lettino al posto di una gamba, oppure come una frase acida che tocca le corde dell’orgoglio popolare scatenando di nuovo e all’improvviso il più profondo senso di appartenenza, con l’umanità e la forza rivoluzionaria che ogni lotta di classe porta in dote. Di nuovo insieme dal basso, uniti, solidali, collettivi. Comunisti, a costo di ritrovarcisi senza volerlo. Come il protagonista Nikichi, sfaccendato ladruncolo che si ritrova per puro caso alla testa del moto e dopo le donazioni ricevute decide di rimanerci, fino a leggere entusiasta pagine del Capitale senza introiettarle e poi a ritrovarsi a ridere nervosamente, di nuovo nullatenente e con un occhio pesto, in mezzo all’ennesima sommossa popolare, questa volta rivolta – si spera – contro il nemico giusto. Come la bella Mei, piccola fiammiferaia che la fame ha reso prostituta d’infimo bordo, che il caso vorrà risolutrice della piccola detection riguardo gli incendi appiccati alle case abusive in un accordo fatto di corruzione, ricatti e minacce fra finanza, criminalità organizzata e polizia per favorire le speculazioni edilizie, e che il locale predicatore religioso, ex affiliato yakuza da parecchi anni direttore dell’orfanotrofio dove i due protagonisti sono cresciuti, vorrà invece al fianco di Nikichi. O come il piccolo Kantaro che nel primo di questi incendi ha perso il padre, teatrante senza salario fisso e autore del furto della kama yakuza dopo essere stato respinto dal clan, che ora usa il calderone come quello zaino scolastico che la povertà gli ha sempre impedito di avere. O forse, più in generale come tutti gli uomini e le donne che abitano, vivono e animano l’eterna ombra cinta da mura di Kamagasaki, cenacolo (o meglio “calderone”) di malumori, angoscia, rabbia, repressioni e lotte sociali – il dentro e il fuori, la comunità e lo Stato che l’ha abbandonata, il microcosmo e il mondo esterno che lo sfrutta, lo nasconde e lo minaccia. Un sottoproletariato urbano caotico, maledetto, oscurato, dimenticato, costretto a vivere di stratagemmi estemporanei, di scippi, di furtarelli, di monte dei pegni, di arte nell’arrangiarsi, di lavori irregolari a giornata rigorosamente privi di qualsivoglia assicurazione offerti e non sempre pagati da oscuri subappaltatori illegali, o ancora di prostituzione low cost così lontana dalla perfetta pulizia dei bordelli regolari della città. Eppure, vaccinato dalla marginalizzazione, dall’amarezza, dal rumoroso gorgogliare dello stomaco e dalla disillusione che hanno accompagnato ogni giorno di ogni singola vita, è proprio questo il sottoproletariato che sa ancora resistere, che sa ancora combattere per la propria quotidiana autodeterminazione, che sa ancora rivendicare il proprio sacrosanto diritto a (soprav)vivere. Che sa mantenere vivo per lo meno un residuo di speranza, umana, politica e cinematografica, che ci sia un po’ di luce in fondo al tunnel.
Marco Romagna