THE IRISHMAN (2019), di Martin Scorsese
«I heard you paint houses», “ho sentito che imbianchi case”. O forse sarebbe meglio dire “le arrossi”. Un’opera d’arte su muro. Senza bisogno di pennelli, né di rulli, né di vernice. Basta una pistola, rigorosamente nuova e “pulita”, della quale liberarsi appena finito il lavoro. Basta un solo colpo alla testa, poco importa se alla tempia o in mezzo agli occhi, con lo schizzo di sangue pronto a dipingere con il vigore mortale della sua secchiata. Basta un codice con cui ordinare l’omicidio, basta la glaciale perfezione del killer, basta la sua (quasi) completa assenza di rimorsi, la sua totale affidabilità nella causa criminale come implacabile esecutore. Senza porre domande, senza interessarsi o voler capire troppo quello che sta accadendo intorno, le identità delle sue vittime, i motivi delle sue esecuzioni. C’è solo il lavoro, sporco, pericoloso, ma da fare. Per oltre cinquant’anni, fra ascese, cadute, amicizie, arresti, anelli, scelte dolorosissime, tradimenti, giudizi, figlie perdute e tardivi rimpianti. Ma in The Irishman, atteso e testamentario ritorno di Martin Scorsese al mafia movie presentato dopo le prime di New York e Londra alla Festa del Cinema di Roma poche settimane prima del suo (decisamente troppo breve, con soli tre giorni di programmazione) approdo nelle sale a inizio novembre e poi sul servizio streaming del produttore Netflix, dopo l’abbandono di Paramount l’unico disposto a concedere a Scorsese tempo e fondi pressoché illimitati per una postproduzione lunga quasi due anni e un budget oltre i 140 milioni di dollari, non c’è (più) alcun eroismo nella criminalità, non c’è (più) alcun mito, non c’è (più) alcun ritmo serrato. C’è la Storia, c’è la riflessione, c’è il passo cadenzato della senilità e della memoria, c’è una strabordante malinconia. Quella del tempo che passa inesorabile, quella dell’artrite che avviluppa i corpi anche quando la CGI elimina le rughe per riportare a una gioventù solo illusoria, e soprattutto quella della morte, copiosamente elargita e al contempo scampata fra anni di proiettili solo per vederla avvicinarsi quando il corpo, nella sua caducità di paresi e sedie a rotelle, è troppo lento e dolorante per continuare a fuggire. Chi con un tumore alla prostata, chi non riesce più a mangiare, chi in sedia a rotelle, chi fatica a camminare. Chi in qualche modo ancora in carcere a giocare a bocce, e chi invece, forse finalmente, si arrende e si spegne nell’abbraccio del camposanto.
È la malinconia dell’addio a un mondo e a un cinema che non esistono più, quella di The Irishman. È la malinconia di un invecchiamento condiviso, è la malinconia del come eravamo, ma è anche la malinconia consapevole e sempre sognante di chi vuole che la porta di libertà, rinnovamento e autorialità della New Hollywood resti semiaperta nella speranza che possa nuovamente spalancarsi l’utopia di un nuovo movimento realmente artistico che possa evolversi e cambiare ancora, per quanto all’orizzonte gli sia sempre più difficile scorgere una generazione che abbia davvero voglia di continuare a osare con il mezzo cinema. Una malinconia sulla quale tessere una celebrazione, un canto funebre, un dolente epitaffio d’amara e cinefilissima coerenza, che rilancia la centralità dell’immaginario autoriale – non certo casuali, in questo senso, gli allarmati e condivisibili quanto largamente fraintesi recenti attacchi di Scorsese alla produzione in serie della Marvel – in un mondo produttivo e distributivo che negli States delle major come nel resto del mondo questo immaginario lo sta inesorabilmente appiattendo e standardizzando. A Martin Scorsese, cinefilo e autore ancora militante, non resta che riprenderlo e farlo rivivere personalmente, ancora una volta profondamente “suo”, reimmergendosi per una (mai) ultima volta, come in un personale e alternativo C’era una volta in America (da consumarsi preferibilmente nei dintorni de Il posto delle fragole) che riflette e reinventa su personaggi reali e fittizi innestandoli nel flusso della Storia dagli anni Cinquanta al Duemila, nel mondo delle Little Italy e nelle sue epopee gangster. Con i volti digitalmente ringiovaniti, magari per poi essere ulteriormente invecchiati, degli attori di una vita. Perché non avrebbe avuto alcun senso girare The Irishman con altri o differenti interpreti, non avrebbe avuto alcun senso ripercorrere mezzo secolo di Storia senza avere ancora una volta al proprio fianco per tutti i duecentodieci minuti chi quella storia, del cinema, insieme a Scorsese l’ha scritta e vissuta con/sulla sua pelle e con/sul suo corpo, dai venti-trent’anni di ieri fino ai quasi ottanta di oggi. Serviva la rimpatriata, la riunione di famiglia, il ritorno, come dice lo stesso regista con pensiero assai più profondo di quanto possa sembrare, a «fare un film con i miei amici». Quelli di sempre, dal feticcio Robert De Niro, che finalmente con inediti occhi cerulei ritorna protagonista di un ruolo degno del suo sconfinato talento dopo troppi anni passati più o meno a vivacchiare, all’eterno Joe Pesci, semplicemente sublime nelle sue rughe e nel suo italiano strascicato, passando per Harvey Keitel che può ancora una volta perdonare e salvare De Niro a quarantasei anni di distanza da Mean Streets. E per Il padrino Al Pacino, straordinario nel suo overacting nel ruolo del sindacalista/mafioso Jimmy Hoffa, che per capriccio del destino con Scorsese non aveva ancora mai lavorato, ma che quanto gli altri interpreti è volto simbolo di quella New Hollywood di cui The Irishman si pone come orgogliosa e dolente pietra tombale. Che spera con tutto il cuore, però, di essere solo provvisoria. A lasciare uno spiraglio, una speranza, una possibilità di redenzione. All’uomo, come al cinema che da 124 anni lo racconta.
Come si anticipava, è prima di tutto un film sul tempo The Irishman. Un film sulla caducità dei corpi, sulle rughe che progressivamente solcano sempre di più i visi, sulla consapevolezza – anche di un genere cinematografico – di invecchiare, sulla memoria collettiva che si dirada mentre rimane, sanguinante, quella dell’uomo e del suo unico reale rimorso fra centinaia di omicidi per aver tradito un vero e sincero amico, e ancor peggio per averne poi – «Che razza di uomo può fare una telefonata del genere?» – rincuorato la moglie. Dalla memoria della gente spariscono gli outsider come il sicario/“imbianchino” irlandese Frank Sheeran, spariscono i boss mafiosi della famiglia Bufalino che per decenni furono «proprietari della strada» e che oggi nessuno o quasi fra i giovani ha più sentito nominare, e sparisce – proprio come il suo corpo mai ritrovato dal ’75 e che solo nei primi Duemila Sheeran dirà di aver attirato e ucciso in una casa di Detroit al giornalista Charles Brandt, autore del libro-inchiesta di L’irlandese. Ho ucciso Jimmi Hoffa (in originale, appunto, I heard you paint houses) dal quale Scorsese, su consiglio di De Niro e con sceneggiatura di Steven Zaillian, ha tratto The Irishman – persino il sindacalista dei trasportatori colluso Jimmy Hoffa. Un uomo un tempo potente e arcinoto non solo negli Stati Uniti, e oggi ricordato – da pochi, o per lo meno non dall’infermiera che si ritroverà ad accudire l’ormai anziano e moribondo “Irishman” – solo grazie alla memoria del cinema. Prima in Sergio Leone, che proprio in C’era una volta in America ispirandosi alla figura di Hoffa aveva immaginato il personaggio del sindacalista sempre più corrotto James O’Donnel, poi incarnato da Jack Nicholson nell’Hoffa – Santo o mafioso? di Danny DeVito, e ora ringhiante e ossessionato nelle membra di Al Pacino, fra la sua lotta aperta e vicendevole con i Kennedy, i suoi accordi di reciproca convenienza con i padrini, i suoi quattro anni di carcere senza fiatare una volta scoperta una piccola parte delle sue corruzioni, la sua arte retorica capace di convincere e scaldare, i suoi furibondi alterchi, e poi la sua scomodità nel non volersi fare da parte una volta una volta diventato inutile per i gangster che lo avevano appoggiato. Fino alla morte, inevitabile e proprio per mano di chi fu dolorosamente costretto a scegliere fra un amico e l’altro, fra tradire una fiducia e uccidere seguendo l’ennesimo ordine oppure tradire un’altra fiducia e morire facendo comunque morire. Una morte costantemente evocata prima nella striscia di sangue degli omicidi di Sheeran, poi nei cartelli di presentazione di ogni personaggio al quale il protagonista sopravviverà recanti l’indicazione di quale e quando sarà la fine quasi sempre violenta della sua vita, e infine nel progressivo rimanere di “The Irishman” da solo a comprarsi la bara, verde come la sua Irlanda, e il loculo, ma rigorosamente a muro perché sia la terra sia la cremazione sono un qualcosa di «troppo definitivo».
Ma soprattutto The Irishman, nel suo insistito e (in)visibile intervenire sull’epoca, sull’età, sulla Storia, su una senilità che per lo meno nella finzione e nell’illusione delle immagini può non essere del tutto definiva, è un film sul cinema, che parla cinema, che respira cinema, che (ri)vive cinema. Un cinema perfettamente contrapposto al tempo che, impietoso, nella realtà va sempre avanti, mentre lo specifico filmico è in grado di frammentarlo e farlo scorrere avanti e indietro a piacimento, annullato dai ringiovanimenti e spinto ulteriormente in avanti dagli invecchiamenti, manipolato così come Scorsese, senza alcuna reale ucronia, manipola la Storia che rimbalza fra la decostruzione del mito e i misteri ancora insoluti (i rapporti in chiaroscuro fra la criminalità, la politica e l’economia a creare una sorta di sub-Stato parallelo, l’omicidio Kennedy, la stessa sparizione di Hoffa) su cui nel bene e nel male si è fondato il secondo Novecento d’America. È quello stesso cinema che, sin dalla prima inquadratura, emerge lentamente dal buio e si muove lungo i corridoi della clinica fino al volto reso decrepito di Robert De Niro, è quello stesso cinema che agli spari e all’esibizione della violenza preferisce a volte fermarsi sui fiori, è quello stesso cinema che, nella filmografia di Scorsese, si rende più che mai asciutto e invisibile per trasformare quella che fu la sua epica in una straziante riflessione sulla sua stessa fine. È quello stesso cinema al quale “l’irlandese” Frank Sheeran avrà il coraggio di confessare ciò che non ha mai osato, neanche dopo la morte di tutti i suoi amici coinvolti, confessare nemmeno ai Federali e forse, con tutta la profonda spiritualità scorsesiana di ultime tentazioni e silenzi, neppure a Dio. È quello stesso cinema al quale rendere omaggio e chiedere perdono per i propri eventuali peccati, assicurandosi sempre di lasciargli, anche e soprattutto nella morte (dello/sullo schermo), almeno uno spiraglio per l’ennesima resurrezione.
È solo così che quella meravigliosa utopia di totale libertà autoriale fatta della stessa sostanza dei sogni scorsesiani può, insieme alle loro (in)evitabili caducità, rivivere ancora una volta. Un cinema puro, espanso, d’atmosfera e psicologia innestate nel flusso degli eventi. Un cinema bigger than life, privo o quasi di fronzoli ornamentali e proprio per questo ancora più profondo, sincero, onesto, sentimentale, personalissimo. Teorico, nella sua consapevolezza di essere invecchiato insieme ai suoi protagonisti con i suoi (in)aspettati limiti, con il suo andamento sorprendentemente diseguale, con la sua dilatazione probabilmente eccessiva, con la sua fase centrale non all’altezza (che sia voluto o meno) della buonissima partenza e del sublime finale. Con la sua relativa distanza sia dai congegni narrativi perfettamente oliati nel raccogliere aneddoti fino a giungere al principale e simbolico aneddoto-principe dei maggiori capolavori dell’autore, sia dai capolavori crepuscolari della storia del cinema ai quali evidentemente guarda e sospira. Con qualche passaggio magari non perfettamente chiaro nella continua scatola di flashback che scaturiscono dalle due linee temporali del ritorno senile alla memoria in voce off e immagini di Sheeran/De Niro e del suo viaggio verso quel matrimonio che si rivelerà l’unico omicidio che mai avrebbe voluto commettere, ma al contempo con il suo protagonista forse un po’ troppo monolitico (o forse gommoso, come suggerito dall’effetto di ringiovanimento) nel rimanere in fase di scrittura troppo a lungo sempre emotivamente uguale a se stesso nel suo (in)consapevole contribuire agli stravolgimenti della Storia, per poi magari scoprire solo (e non certo per caso, in un film sulla morte di un cinema) dalla sempre più presente televisione la reale portata delle azioni dei potenti per cui lavora. Dall’elezione di Kennedy, aiutata con brogli per interessi economici dalle famiglie mafiose americane nella rabbia di Hoffa che avrebbe trovato nei fratelli alla Casa Bianca le sue principali nemesi, passando per la disastrosa azione contro la Baia dei Porci che avrebbe voluto destituire Castro per restituire i casinò alle famiglie mafiose americane, fino al conflitto in Kosovo sul quale chiudere gli occhi vecchi e stanchi dell’ospizio per ripensare forse un’ultima volta alla gioventù, alla guerra, ai nemici fucilati dopo averli obbligati a scavarsi la fossa da soli, e poi a quel percorso, così simile a quello del Diario di un ladro del Pickpocket bressoniano che Scorsese frequenta e assiduamente rilegge sin dai tempi di Taxi Driver, che da autista di camion rese il sicario irlandese “fratello”, con tanto di anello d’oro, tanto del boss Russell Bufalino quanto della sua futura, obbligata e dolorosa vittima Jimmy Hoffa.
«Non ti rendi conto di quanto corre il tempo finché non ci arrivi», dirà al confessore il Frank Sheeran di De Niro. Rimasto solo dopo aver seppellito due mogli e tutti gli amici di una vita, disprezzato dalla primogenita Peggy che mai più dopo l’omicidio Hoffa gli rivolgerà parola, e abbandonato anche dalle altre tre figlie cresciute nel terrore del padre e delle sue frequentazioni. Gli restano le fotografie, i ricordi, gli oggetti. Gli resta quell’unico e devastante rimorso per l’unico e devastante tradimento, e ovviamente gli restano le medicine, che ogni poche ore gli ricordano senza pietà quanto sia diventato vecchio. Gli avvenimenti reali, il tempo e il cinema si intrecciano con l’amicizia, l’amore e la fiducia (dis)attesa. Con il dovere, con il ri(s)catto, con il rimorso, con l’invecchiare e con la morte. Mentre la coscienza di Frank Sheeran, permettendo a The Irishman di arrivare realmente al nocciolo teorico ed emotivo della sua profonda malinconia, si evolve di fatto nei rimpianti e nel confronto con le quattro figlie che mai lo riusciranno a perdonare nel suo distorto concetto di “protezione” nei confronti della famiglia solo nell’ultima – e lei sì, realmente fra i migliori momenti di tutto il cinema scorsesiano – delle tre ore e mezzo complessive. Quell’ora di riflessione e di progressivo mettersi a nudo dell’ormai anziano a(u/t)tore, per molti versi bergmaniana fra l’invecchiare e il confronto con il ricordo, i sentimenti e la religione, per cui il film, pur con le sue stasi e i suoi momenti a vuoto totalmente assenti, senza stare a scomodare Goodfellas e Casinò, solo che nel recente The wolf of Wall Street, resterà probabilmente a lungo nelle memorie cinefile. Ben al di là dei cadaveri nei tritaalberi e delle liti in carcere o nei ristoranti, ben al di là dell’ossessione di Russ Bufalino per non fumare in auto o di quella per la puntualità e per l’abbigliamento di Hoffa, ben al di là degli strangolamenti dal sedile posteriore e degli agguati per la strada, ben al di là delle mani rotte per vendetta o delle «case imbiancate». Ben al di là della sapiente gestione dei messaggi in codice e dei pesci che invece non lo sono, ben al di là dei guizzi autoriali e di scrittura nelle frasi sibilline e nell’affrontare gli uomini con la pistola ricordando sempre di fuggire da quelli col coltello, ben al di là degli scambi di esplosioni come “dialogo” alternativo fra gangster e di Sheeran che diventa ambasciatore nell’insanabile sfida prima dialettica e poi di inganni sangue e piombo fra due (ex) amici – «It is what it is». Quell’ora del più consapevole, sincero e strabordante ultimo (?) atto. Di un cinema, di un mondo, di un autore, di un attore. Di un tempo. Di un immaginario. Di un corpo che rimane anziano e dolorante anche quando un computer fa tornare il viso fresco. Ma anche di una porta da lasciare semiaperta, per vedere e ancora farsi guardare dalla macchina da presa, per continuare a sognare, per continuare a sperare. Per continuare, anche con il sacrosanto diritto di commettere qualche sbavatura senile, a fare grande cinema in un mondo di parchi giochi a tema.
Marco Romagna