Donal Foreman lavora sull’eredità cinematografica del padre attivista e radicale Arthur MacCaig, per un cortocircuito continuo sulle derive storico-politiche di ciò che succede(va) a Belfast e dintorni e su quelle della propria famiglia. The image you missed, presentato a Rotterdam 2018, è un oggetto misterioso che già dal titolo lavora sulla mancanza ponendosi a metà tra il film-saggio e il dialogo personale, profondamente ellittico e splendidamente dedito alla ricerca d’archivio. Siamo nel periodo recente più drammatico del conflitto tra Ulster e corona britannica, aperto il 30 gennaio 1972 quando alcuni paracadutisti britannici uccisero a Derry quattordici civili disarmati. Per reazione all’eccidio – quello che oggi ricordiamo come “Bloody Sunday” -, i nazionalisti si rivoltarono contro l’esercito del Regno. Pochi mesi dopo Londra riprese il governo della provincia (Direct Rule), sopprimendo temporaneamente il Parlamento. Furono i giorni di terrore della Provisional IRA e dell’Ulster Defence Association, i giorni che portarono l’Irlanda del Nord sull’orlo della guerra civile per quasi un ventennio.
“Art” MacCaig, dagli Stati Uniti prima e dalla Francia poi, proprio in quegli anni si diresse nell’Ulster sulle tracce dei suoi avi; alcuni di loro erano conoscenti e amici di James Connolly, uno degli storici fondatori dell’IRA. Era un documentarista Art, e proprio a Belfast girò molti dei suoi lavori e reportage (tra tutti l’interessantissimo The Patriot Game, 1979), dedicando a quella criticità buona parte della sua vita non solo professionale. Foreman lavora sui frammenti del padre, ne ripercorre le tracce ideologiche (non solo quella geopolitica, ma anche le lotte di classe, punto cardine della sua ricerca) e ricostruisce l’atmosfera di spazi e tempi che iniziano ad apparire sbiaditi. Un punto di incontro che diventa puramente dialogico: da una parte l’infinito e rigoroso archivio – anche non montato – di MacCaig, dall’altra il tentativo di Foreman di restaurare un rapporto che ha come unico punto di incontro possibile quelle immagini ritrovate dopo la morte del padre. Ed ecco che, già titoli di testa, il film si sdoppia tra i due autori, si presenta quasi come una forma di video-lettera che tenta di imporsi contro l’oblio, un transfert (im)possibile per ritrovare, dieci anni dopo la sua scomparsa, una figura così cruciale o complessa. Attraverso questa traiettoria il film diventa anche un conflitto quasi generazionale, negli spettri di sguardi che cambiano come di vecchi fallimenti che lasciano spazio a nuove derive e impossibilità. Così come cambia il modo di far vedere, può cambiare anche la fede in un ideale? Attorno a questa domanda, al rapporto mancato con il padre, ai resti del conflitto nordirlandese e a quel muro ancora eretto a Belfast, c’è un film che ne contiene innumerevoli altri.
Anche per questi motivi le coordinate storiche e cronologiche non sono così predominanti, come non è predominante la narrazione dei problemi familiari che portarono alla separazione tra MacCaig e Maeve Foreman, da cui Donal prende il cognome. Si sono incontrati per l’ultima volta quasi dieci anni prima di questo film, e questo si sente in maniera pressante, quasi senza possibile riconciliazione. Non tanto con il padre, ma con la (sua) stessa mancanza. Il film supera così l’essere saggio e l’essere video-lettera, e diventa riflessione sul discutere un’immagine e renderla viva, sul trovare in un girato i frammenti di una separazione lunga e dolorosa, forse inevitabile ma allo stesso tempo inspiegabile per lo stesso protagonista. Nell’ultima parte di questo (psuedo)documentario compare Gerry Adams, carismatico e vecchio protagonista della stagione calda dei “Troubles”, a cui Foreman pare quasi lasciare il film lontano dalla sua voice-over sempre più malinconica e oscillante. Tornano i racconti di quelle giornate, l’impressionismo di un collage in divenire che dalla violenza di quei giorni si riflette ancora sull’oggi, l’assenza di una presenza. «La tua macchina da presa ha sempre osservato il mondo degli altri e mai il tuo» dice il figlio al padre a inizio film, e su queste parole (idealmente) si torna anche alla sua conclusione. Il personale e l’universale, l’esigenza di guardare l’altro evitando di incontrare il proprio sguardo, il perdersi per poi ritrovarsi (possibilmente all’infinito). Giusto fermarsi qui forse, tagliando il resto, restando in bilico su questi dualismi inaccessibili, proprio come fa Foreman. Ogni film fondamentalmente non fa altro che mostrare la sua infinitezza, come esso possa esser così provvisorio da scomparire nel momento stesso in cui viene visto, o anche solo ricordato.
Erik Negro