THE ILLINOIS PARABLES (2016), di Deborah Stratman

L’America è un poema ai nostri occhi; la sua ampia geografia abbaglia l’immaginazione. L’America è l’altro nome dell’opportunità in cui l’unico peccato è porsi dei limiti
Ralph Waldo Emerson

Pochi artisti statunitensi negli ultimi venticinque anni sono riusciti ad esplorare il paesaggio e la storia della loro nazione come Deborah Stratman, che incessantemente si interroga su questo spazio infinito, dalle infinite contraddizioni attraverso film, istallazioni, sculture, ma anche suoni e performance, come se solo una polimorficitá d’espressione potesse in qualche modo rendere conto della percezione/perversione americana del terzo millennio. Nel suo lavoro mostra e indaga questioni di potere, di controllo e di fede, esplorando come i luoghi, le idee, e la società si intreccino in spettri di senso apparentemente incomprensibili; anche da qui il bisogno di affrontare contemporaneamente valori e linguaggi dalla libertà all’espansionismo, dalla sorveglianza al post-colonialismo, dalla guerra sonora al dibattito pubblico, fino a giocare con fantasmi e la magia, la scienza e la chiesa, gli animali e l´astronomia. In fondo cosa pò cercare l´immagine se non l’identità in questa epoca di drammatica rarefazione e superficialità?

Questo splendido ultimo The Illinois Parables circoscrive il suo campo di indagine, già dalle magnifiche topografie di apertura e chiusura, le praterie, i corsi d´acqua, gli ampi spazi e le sterminate vedute. Undici semplici parabole che raccontano eventi della storia dello stato, condensando e sciogliendo disastri naturali, devozione messianica, innovazione tecnologica, resistenza del governo, misteri irrisolti di esodi e tecnologie in un affresco astratto in cui si definiscono quei sistemi di credenze che rappresentano il modello/struttura della nostra visione (esterna/interna, visto che sempre occidentali siamo) degli Stati Uniti. I momenti sono apparentemente definibili e sostanziali come l’ancora stessa del dialogo. Dallo sgombero violento della comunità Cherokee alla creazione di una comunità utopica di Icariani francesi, l’invenzione del reattore nucleare, l’omicidio del leader delle Pantere nere Fred Hampton, fino al footage delle calamità naturali, e a quel dialogo continuo e spaziale tra città e provincia, che forma da sempre il tessuto connettivo fondamentale da analizzare in territorio nord americano. Si ha un’impressione primaria dello stratagemma strutturale, in cui l’inquadratura sia la forma resistente al processo di rimozione collettiva della storia, ma che si limiti ad accompagnare il testo condensando allegorie che esplorano come le società siano modellate per convinzione ed ideologia. Le posizioni oggetto di indagine sono quelle in cui i confini tra il mondo razionale e il soprannaturale diventano tenui, mescolando traiettorie di fede e tecnologia e suggerendo legami tra l’astrazione scientifica e religiosa in luoghi sottili, in cui la distanza tra cielo e terra è crollata in tempi descritti tra un passato/presente, e in cui il desiderio e lo spostamento sopravvivono nello spazio della rievocazione, tra le immagini di repertorio e le riprese osservazionali contingenti a didascalie d’epoca. Lo scopo (e tentativo) è quello di spiegare l´ignoto, lambendo il baratro dello studio sull’ideologia sociale nella complessità del Midwest. Missione compiuta.

Con l’avanzare dei capitoli il film muta, si scioglie e trova una sedimentazione sempre più potente. È l’immagine stessa a prendere il sopravvento, a diventare forma concreta e speculare della parola in cui la società rappresentata diventa lo stratagemma del visto e del visibile, plasmando la stessa forma liturgica delle parabole in cui le didascalie e la voce fuori campo supportano solamente questi meravigliosi quadri in sedici millemetri, continuamente sovraesposti, inquieti e distorti. La forma non fa altro che esibire frammenti di morale catalizzata mentre la Stratman collima e stratifica, in un’immagine che collassa continuamente nell’impressione di una rappresentazione già memorialistica e museificata. Così l’Illinois potrebbe benissimo rappresentare un gran teatro delle espressioni del mondo, dove la storia si insegue, raggrumandosi (quasi lacanianamente, nell’avanzamento e rarefazione dei quadri temporali) in episodi drammatici che strutturano il film, non tangendo mai l’inquadratura che nel finale si autosorregge in una terzietà evanescente e poetica. Un documentario sperimentale (se proprio vogliamo trovargli l´etichetta) che cammina sul terreno disorientante della struttura, non facendosi mai saggio ma amplificando il residuo fenomenologico che la Storia dissemina nelle nostre vite. Distillando continuamente i quadri, con le parole e i suoni gli ambienti respirano nelle loro esistenze fisiche lasciando dietro una traccia palpabile, un’impronta fisica o psicologica che conserva la memoria dei traumi e le ansie del passato che li rendono la componente essenziale (anche se spesso sublimata) dei rapporti individuali di una società. Fondamentali così ritornano le parole di Emerson che a inizio film si interrogava già su un’America che non riusciva più a vedere sua, quasi come se si esponesse alla mappatura cieca di un paese che troppo presto avrebbe perso la bussola confinandolo nella figura dell’intellettuale/patriota dissenziente che combatte il fuoco con il fuoco. E forse oggi proprio la figura della Stratman é a lui assimilabile, nella continua ricerca, nell’impiego di tecnologie vecchie e nuove per rivelare l’errata propulsione delle nostre paure e di cercare gli interessi che tentano di sfruttarle. Tutto ciò attraverso un’interrogazione continua, in cui il mezzo filmico diventa non solo lo strumento, ma la sostanza stessa che condensa la forma cinema in un rapporto estetico e dialettico sul contemporaneo che ha pochi eguali, e che ci rende partecipi della complessità dello stare qui, di noi a cospetto degli altri, del mondo (non solo dell’Illinois).

Erik Negro