THE HUNGRY LION (2017), di Takaomi Ogata
“Ma una notizia un po’ originale
non ha bisogno di alcun giornale
come una freccia dall’arco scocca
vola veloce di bocca in bocca.
E alla stazione successiva
molta più gente di quando partiva
chi manda un bacio, chi getta un fiore
chi si prenota per due ore”Fabrizio De André, Bocca di Rosa
È piuttosto improbabile, per non dire impossibile, che la triste storia di Tiziana Cantone suicida nel 2016 dopo la circolazione di alcuni suoi video porno amatoriali sia giunta dall’Italia bigotta e bacchettona fino al lontano Giappone. È piuttosto improbabile, per non dire impossibile, che il suicidio a cui in sostanza tutti noi, nessuno escluso, l’abbiamo spinta con la nostra facile ironia e con i nostri retaggi di tabù maschilisti per i quali un minimo di libertà sessuale da parte di una donna vuole dire automaticamente bollarla come “troia” abbia davvero attraversato mezza Europa e tutta l’Asia per condensarsi nella sceneggiatura di The hungry lion, quarto lungometraggio del cineasta nipponico Takaomi Ogata presentato a Rotterdam. Eppure, a partire da «Stai facendo un video?» destinato a cambiare solo nella seconda parte della frase dal famigerato «Bravo!» della Cantone al più fisico «Mi sto bagnando» della finzione di Ogata, The hungry lion ricorda con un’aderenza a tratti inquietante la vicenda della giovane suicida napoletana, prima il suo sputtanamento, la pubblica gogna che progressivamente l’ha stretta come un cappio fra dicerie, battutine, immagini distorte, e poi la retorica, il pentimento tardivo dopo la sua morte, l’incapacità di abbassare lo sguardo e lasciare una famiglia tranquilla nel suo dolore. Nel dicembre 2017, giusto un paio di mesi dopo la primissima proiezione del film di Ogata al Festival di Tokyo, il Tribunale di Napoli non potendo comprovare alcuna responsabilità diretta ha archiviato l’indagine che era in corso per istigazione al suicidio. Tiziana Cantone si è uccisa, secondo la giustizia italiana, “per propria volontà”, dopo che sempre “per propria volontà”, senza calcolarne le possibili conseguenze, si è (legittimamente, per quanto riguarda chi scrive, ma non per la pubblica morale) divertita giocando con il proprio corpo e con la messaggistica istantanea, con il desiderio e con la propria sessualità, finendo per infilarsi da sola nell’occhio di un ciclone di erotomani e moralisti – il video che si espande a macchia d’olio, tutti che, gaudenti, scandalizzati o semplicemente divertiti, la guardano intenta in quel pompino che la rende non famosa ma famigerata, non soggetto ma oggetto, non pura ma peccatrice. Non si sa chi sia stato a diffondere il video, o più probabilmente tutti lo abbiamo fatto, è semplicemente successo come nel mondo social nel quale viviamo è possibile che succeda, e di certo un tribunale non può processare un’intera nazione: la richiesta di archiviazione da parte del GIP era probabilmente, a livello legale, l’unica soluzione percorribile. Ma il fatto che nessuno pagherà personalmente per ciò che è accaduto, il fatto che per il gesto estremo di Tiziana Cantone non ci siano “colpevoli” con un nome, un cognome e un volto, non toglie le responsabilità per lo meno morali dell’intera collettività che ha condiviso i suoi video di sesso, che ci ha fantasticato e che l’ha derisa, che li ha trasformati in oggetto di continuo dibattito e di dileggio, che l’ha spinta alla vergogna e che le ha attaccato addosso un’etichetta con la quale era ormai per lei insostenibile convivere. Per poi magari sfruttarla ancora, come sciacalli, dopo la morte, fra servizi giornalistici strappalacrime e tardive riabilitazioni. Siamo tutti noi che abbiamo trasformato, cellulare dopo cellulare, quel «Stai facendo un video? Bravo» da semplice gioco erotico in catchprase, in tormentone, in un qualcosa di riutilizzato da chiunque in ogni ambito, mentre Tiziana Cantone, per il tragico errore di una sera che le ha fatto posare un dito su “invio”, ne usciva per sempre infangata, travolta da una notorietà che di certo non avrebbe voluto, “zoccola” a vita senza possibilità di redenzione. Tanto da decidere di porre fine prima possibile al suo tormento.
È, come si diceva, piuttosto improbabile per non dire impossibile che la triste storia di Tiziana Cantone sia giunta dall’Italia fino al Giappone. Eppure, l’aderenza alle vicende di finzione narrate in The hungry lion di questa come di chissà quante altre storie simili o identiche in giro per il mondo indica la ben precisa valenza paradigmatica della piccola tragedia campana del 2016. C’è, forse, una sola differenza: Tiziana Cantone era – non che sia una colpa – effettivamente la persona presente nel video che la ritraeva, mentre il nodo alla base del cappio che progressivamente si stringe intorno alla gola di Hitomi, protagonista del film di Ogata, è molto probabilmente una calunnia, uno scambio di persona, una diceria, una fake news che convince l’intera città, fino a trasformarla nella “verità” che scivola di bocca in bocca e di dispositivo in dispositivo, che la ragazza sia effettivamente la protagonista del mirabolante video porno del suo professore di recente arrestato per prostituzione minorile dopo che un suo privatissimo filmato era in qualche modo uscito dal suo telefono. Hitomi continua a far notare come la protagonista del video nemmeno le somigli mentre quasi nessuno le crede fino in fondo, ma The hungry lion, intelligentemente, lascia su questo punto un’apertura al dubbio, un’ambigua sfumatura: non è questo ciò che importa, non è l’eventuale “colpa” di Hitomi l’oggetto dell’indagine cinematografica. Ciò che il film mette in scena, e ciò su cui si interroga con sagacia, umanità, potenza e un ben preciso linguaggio, è il mondo che sta intorno a Hitomi, è il nostro sguardo che crede a tutto ciò che gli viene proposto, è l’altra faccia della notorietà da social network e di una comunicazione che, con la sua velocità e capillarità, rischia di trasformare ogni (falsa) notizia in postulato senza più verificarla, senza più controllarne le fonti, e soprattutto senza calcolarne le possibili tragiche conseguenze. Sta tutto in una delle rare sequenze ravvicinate del film, nel simbolo che emerge da uno dei pochissimi dettagli portati sullo schermo: una lente a contatto viene delicatamente innestata sull’occhio come per cercare di mettere a fuoco, come per suggerire di diffidare dalla confusione delle apparenze, come per ricordare sempre di osservare bene ciò che si sta guardando, di discernere, di ragionare. Hitomi invece, proprio come nella realtà accadde a Tiziana Cantone, si ritrova stretta in una spirale di dicerie e cattiverie da cui verrà progressivamente soffocata, annientata, nei fatti uccisa. Prima sono le risate quasi innocenti delle compagne di scuola, poi le voci arrivano alla sorella, poi alla madre, poi a lui, Hiroki, con il quale Hitomi tenera e imbarazzata iniziava a scoprire l’amore allontanando sotto le coperte il giocoso desiderio di lui di filmare i loro giochi erotici. Ma Hiroki, senza probabilmente che lei nemmeno se ne rendesse conto, punta comunque il suo obiettivo verso il letto per un video autoscatto destinato a non riuscire, destinato a inquadrare il soffitto al posto dell’alcova a causa della caduta del telefono appoggiato sul tavolino della stanza d’albergo, destinato a relegare il loro amplesso ai gemiti in audio, ma, nell’opinione comune, destinato pure a diventare “il secondo porno”, la “prova definitiva” del “fatto” che Hitomi fosse protagonista anche del primo, quello con l’insegnante.
Non è certo un caso che Takaomi Ogata opti per una messa in scena minimale, fatta di punti di vista fissi come quelli delle videocamere di sorveglianza che a volte hanno il leggero tremolio del colpevole voyeur, e che solo nella scena del video girato da Hiroki fra le resistenze di Hitomi si passi al footage amatoriale dei siti porno, alla macchina – o meglio al telefono – a mano, alla soggettiva. Come non è certo un caso che The hungry lion, seguendo la contemporaneità intermittente di ogni post pubblicato su qualsiasi social, si scandisca in sostanziali episodi, in sequenze che sono eventi scissi l’uno dall’altro, mentre qualche istante di nero annuncia ogni volta il passaggio da un momento all’altro. E non è di certo un caso nemmeno che il video incriminato, quello per il quale un insegnante finisce in carcere e una studentessa che probabilmente non c’entra si uccide, sia destinato a rimanere fuori campo, mai visibile per lo spettatore. L’immagine ai tempi dello smartphone sempre in mano ai protagonisti e dei social network con cui, fra un post e un commento calibrato, tutti noi ci divertiamo a costruire la nostra facciata pubblica, è ormai un qualcosa di sempre più invasivo, pressante, di inquietante tempestività. È un qualcosa di cui ci fidiamo troppo, un qualcosa che sposta opinioni e masse, un qualcosa che non può più definirsi né essere considerato innocente. Quello meccanico degli obiettivi è uno sguardo in potenza profondamente pericoloso, che può violare e stravolgere l’intimità, che può distruggere una personalità, che può essere una scorciatoia dalla quale liberare la peggiore crudeltà umana. Le foto e i video costantemente raccolti con gli smartphone vengono pubblicati e si moltiplicano in una frazione di secondo, diventano “profilo”, diventano popolarità, diventano magari moda, status symbol di fan e follower. Ma, in questa continua (sovra)esposizione, in questo mondo di “personaggi” che inevitabilmente si sovrappongono alle persone, un video può diventare anche immagine distorta di un qualsiasi individuo, l’occasione di ricatto morale della collettività, un ridanciano slogan, o addirittura la rovina, la reale e unica causa della morte. Dopo la quale inevitabilmente giungerà un altro tipo di immagine, quella raccolta dalle televisioni incuriosite dalla vicenda, quella che insegue chiunque abbia conosciuto Hitomi per intervistarlo, quella che si apposta fuori dalla casa e dalla scuola totalmente incurante del lutto, quella che non si fa il minimo problema a fare uso di una retorica insopportabile per costruire una nuova rappresentazione della suicida falsa almeno quanto quella che l’ha spinta al suicidio. I servizi televisivi tirano fuori come Hitomi aiutasse i vicini oppure come aspettasse il Natale per costruirne una figura angelicata, e nel frattempo, facendo leva sulla sua gioventù, sulla sua normalità e sulla sua voglia di godersi la vita, mentre condiscono il tutto con musiche strappalacrime e con grafiche che debordano cuoricini, seminano il dubbio che il divorzio dei genitori e la nuova relazione della madre abbiano potuto influire, se non addirittura esserne l’unica reale causa, sul suo suicidio. Nei suoi cambi di sguardo, The hungry lion innesta tutte le sue riflessioni sulla natura stessa dello sguardo, sulla riproducibilità come violenza, sulla natura brutale e antietica dell’uomo e dei media, sempre pronti a moraleggiare o a mentire, sempre pronti a plasmare e a rifinire le immagini per avvalorare le proprie tesi, sempre pronti a fare spettacolarizzazione speculando sul privato, sul sesso, sui drammi esistenziali, sulla morte, alla stregua di iene che spolpano una carcassa.
Fra preservativi pieni lasciati nel suo armadietto per sporcarla e scritte “puttana” che campeggiano in inchiostro indelebile sul sul banco, fra sguardi maliziosi al videocitofono e fiducia riposta nelle persone sbagliate, Hitomi sarà costretta a vergognarsi nell’andare a scuola, e ben presto, nel progressivo abbassarle la testa della pubblica gogna, pure per strada verrà riconosciuta e fermata dagli sconosciuti come da quelli che credeva amici, e che invece vinceranno le sue resistenze fino a umiliarla e violarla, prima stuprandola in due sul sedile posteriore dell’auto e poi lanciando le sue mutandine proprio a Hiroki che la aspettava sotto casa. Incolpata pure per una violenza subita, annientata definitivamente nell’anima e nella reputazione, Hitomi non potrà che spingersi fino a quel momento alla stazione, l’ultimo suo sguardo su Hiroki che amoreggia con un’altra, l’ultima fotografia scattata al suo (non più ricambiato) amore prima di lanciarsi sotto al treno in corsa: l’odio ha fatto ancora una volta il suo corso. Dopo rimangono solo le ipocrite commemorazioni a scuola, rimane qualche minuto di lacrimucce da parte di chi ancora imita e deride Hitomi per la strada, di chi ancora parla, millantandoli, dei suoi lati oscuri quasi come se fosse Laura Palmer nella Loggia Nera. È il momento del moralismo dilagante, delle colpe rifilate a chi non c’entra, a una madre “poco attenta” che ha osato rifarsi una vita dopo un matrimonio andato a rotoli, dopodiché il «Mi sto bagnando» di Hitomi diventerà un tormentone anche per chi non ne conosce l’origine, come un fenomeno di costume, come un qualcosa con cui stupire gli astanti, e tutto riprenderà come se nulla fosse: i treni ricominceranno a viaggiare, la scuola andrà avanti semplicemente saltando il nome di Hitomi all’appello, e pure la squadra di basket troverà ben presto una sua sostituta. Potente e straziante, atroce e profondamente amaro, a The hungry lion non rimane che ritornare all’unica scena di sesso, quella vista con gli occhi di Hiroki, quella filmata direttamente dal telefono del protagonista, e usarla per palesare il set. Takaomi Ogata, dalla sua poltrona da regista, urla «facciamone un’altra», gli attrezzisti entrano in campo: siamo nell’ambito della finzione, della messa in scena, di quel cinema che degli obiettivi degli smartphone è inevitabilmente il genitore, ma che a differenza degli obiettivi degli smartphone sa, se bene utilizzato, conservare ancora la sua etica. Nel disvelamento del dispositivo, nella rivelazione della “bugia” dell’immagine, sta tutto il messaggio di The hungry lion, sta tutta la necessità di ragionare sulla veridicità di ciò che si vede, e sta tutto il senso di colpa di chi invece ha creduto pedissequamente a quello che ha visto, senza nemmeno pensare alla possibilità che potesse essere (ri)costruito, falso, un’impressione sbagliata. Rimane giusto il tempo per il primo piano del volto di lei, e poi per il controcampo sull’obiettivo della fotocamera, forse l’unico vero colpevole, o per lo meno lo strumento della colpevolezza di tutti noi, quello attraverso il quale spingiamo il nostro sguardo anche dove non dovrebbe andare. L’occhio che uccide era ed è sempre il nostro, meccanico e fisico, brutale e affamato, incapace di ragionare su quello che vede. I veri responsabili siamo ancora noi, sempre noi, curiosi, morbosi, egoisti, pronti a mescolare il vero e il falso, e incapaci di capire quando, banalmente, sarebbe il caso di volgere lo sguardo da un’altra parte prima di piangere ancora una volta sul latte versato. Come nel caso di Tiziana Cantone, che ben al di là delle non punibilità stabilite dai tribunali tutti noi, nessuno escluso, abbiamo contribuito a uccidere con i nostri occhi e con le nostre risatine maliziose. Ed è inutile provare a tirarsene fuori.
Marco Romagna