THE HUNCHBACK (2016), di Gabriel Abrantes e Ben Rivers
Già su carta, una collaborazione tra Gabriel Abrantes e Ben Rivers può stranire. Come si potrebbero coniugare queste due tipologie diversissime di lettura del cinema? Se da una parte il londinese Rivers è vicino alla contemplazione e al documentarismo spirituale, dall’altra l’americano/portoghese Abrantes è una stella emergente del surrealismo comico, un grande del genere parodistico già noto per lo splendido corto Ennui Ennui (2013) e per il segmento, l’unico veramente memorabile, del film collettivo Aqui, em Lisboa (2015). The Hunchback è tratto da una delle storielle delle Mille e una notte, ma ne è una rilettura fantascientifica: la storia originale si focalizza su di un gobbo che, dopo aver smesso di respirare avendo ingoiato una lisca, finisce per avere varie disavventure da “morto” finché un barbiere, togliendogli la lisca dalla gola, lo salva; invece il cortometraggio di mezz’ora si concentra invece su di una multinazionale chiamata Dalaya che, in un futuro prossimo, detiene il potere a livello internazionale e costringe i propri dipendenti ad avere una pausa dal lavoro attraverso un gioco di ruolo medievale creato da un’illusione digitalizzata e da droghe sintetiche. Durante questo gioco di ruolo, ha luogo una storia solo vagamente ispirata a quella originale, con le varie disavventure del gobbo cambiate, e con la morte che arriva subito e non se ne va mai.
The Hunchback, in realtà, parte da uno spunto interessante che a volte riesce a soddisfare: l’assurdità provocatoria della commedia di Abrantes è solo un pretesto per far procedere una trama quasi esistenzialista ma impossibile da prendere davvero sul serio, con momenti umoristici notevoli soprattutto nella commistione tra estetica medievale ed estetica digitale. Il mondo medievale è in pellicola, ma viene costruito da una serie di pixel che scorrono come a comporre un puzzle computerizzato o videoludico; o in un’altra scena, più verso la fine, uno dei personaggi, vestito militarmente, va per una discesa con sguardo enfatico e solenne, ma sta guidando un segway. Inframezzando la narrazione delirante della storia con gli interrogatori subìti dai dipendenti da parte dell’azienda riguardo all’accaduto, Abrantes e Rivers costituiscono un collage di sketch quasi sempre divertenti, con come unico punto (davvero) basso e volgare la scena in cui la donna ubriaca scambia il cadavere del gobbo (col pene eretto) per suo marito e ci fa l’amore, scambiando i versi del compagno che defeca nella stanza accanto per orgasmi di piacere: una scena che viene raccontata prima di essere messa in scena e che può inizialmente far sorridere (ricordando, ad esempio, la commedia pop americana à la Clerks), ma che di fatto quando è descritta dalle immagini sembra nient’altro che una provocazione gratuita e sadica nei confronti del buon gusto dello spettatore, senza lo spirito ironico leggero ma pensato che rende il cinema di Abrantes sempre godibile. Non è una scena che scandalizza o che vuole scandalizzare, è solo una trovata kitsch.
La realtà alternativa distopica inoltre funziona a livello teorico, ma la maniera in cui l’opera si volge verso la propria conclusione è eccessivamente ermetica, con un concettualismo tra l’astratto e il trash volontario. Si riconoscono nella scelta narrativa caratteri di entrambi i registi, in realtà, dalla libertà animalesca di Rivers al puntare sempre più sull’assurdo di Abrantes, e questo si nota soprattutto con la rivelazione finale che il capo della Dalaya è un bambino grasso digitalizzato, una specie di robot che parla con la manifestazione corrotta e inquietante dell’infanzia ormai fuori dal mondo, fuori dalla razza umana, fuori dalla vita. Ma sfortunatamente la messinscena è difficile da prendere sul serio, con questo fantomatico antagonista che sembra un Piccolo Lucio animato da Jimmy ScreamerClauz, l’autore di quell’abominio di Where the dead go to die (2012).
Bloccati nel cinema come il Denis Lavant di Holy Motors (2012), i personaggi di The Hunchback sono solo povere vittime di un sistema, ma il sistema stesso non può essere l’unica critica, e qui sta il problema principale del cortometraggio: il cervello umano non può non andarci di mezzo. Non può essere un conflitto solamente geografico, e non filosofico o filologico, e il lavaggio del cervello dei dipendenti della Dalaya non può fermarsi a un limitativo aspetto ludico. L’essere bloccati nel cinema non deve collimare con il bloccare il film in se stesso: bisognerebbe invece portare avanti il messaggio senza che si atrofizzi tra una battuta e un’inquadratura un po’ più lunga del normale, con l’antropomorfizzazione di un capretto, che un po’ cita Bresson e un po’ rimanda involontariamente a The VVitch (2015). Con il passare dei minuti, il film tende a sfilacciarsi, incartarsi, smussare la punta del fioretto, perdendo per strada buona parte di quelle che erano le ottime premesse e rivelandosi in sostanza nulla più che un gioco. Ma tutto sommato, l’operazione non è completamente fallimentare e rimane, se non altro nei repentini cambi di atmosfera e nelle situazioni surreali immaginate da Abrantes, oppure nella splendida fotografia di Rivers, un’esperienza che tutto sommato diverte e non annoia. Ma è indubbiamente una prova deludente, da parte di tutti e due i registi.
Nicola Settis