THE HEDONISTS (2016), di Jiǎ Zhāngkē
Il grande Jiǎ Zhāngkē è tornato quest’anno con un corto sensazionale: The Hedonists, già tra le proiezioni più memorabili della 69esima edizione del Festival del Film Locarno, con i suoi 26 minuti, si rifà direttamente all’ultimo enorme lungometraggio del regista di Fenyang, Mountains may depart, tradotto in italiano con il perlomeno discutibile titolo Al di là delle montagne. Per fare i dovuti collegamenti è necessario dunque ricordare in cosa consisteva il film, in concorso a Cannes nel 2015: suddivisa in tre parti, ambientate la prima nel 1999, la seconda nel 2014 e la terza nel 2025, la trama di Al di là delle montagne gira attorno a Tao (interpretata dalla moglie del regista, Zhao Tao), da un triangolo amoroso a fine 21esimo secolo a un ricongiungimento con il figlio anni dopo il divorzio, con in conclusione la vita di lui in Australia in un mondo ormai digitalizzato e distante dalla tradizione e dalla Cina. Tra i due spasimanti di Tao nel primo segmento (in 4:3) del film, quello che “perde” (e torna nel secondo segmento, ormai padre e marito, per chiedere a Tao dei soldi per un’operazione chirurgica) è Liangzi, interpretato da Liang Jingdong ed uno dei tre protagonisti di The Hedonists, che è parte di una serie di corti appartenenti all’edizione 2016 di una serie chiamata Beautiful – accanto a Jiǎ vi sono registi di vario tipo e di varia capacità e notorietà come Stanley Kwan, Hideo Nakata, Alec Su.
Il corto si apre intensissimo sulle note di pianoforte della colonna sonora originale di Mountains may depart composta da Yoshihiro Hanno, mostrando treni che passano e Liangzi che è sempre bloccato in un lavoro che lo appesantisce e gli fa male fisicamente, preannunciando la malattia di Al di là delle montagne. Si viene a conoscenza di due suoi amici/colleghi, interpretati da Sanming Han e da Yuan Wenqian, che vengono licenziati lo stesso giorno di Liangzi e di tutti gli altri dipendenti della loro miniera di carbone al massimo della crisi economica cinese, con la chiusura definitiva della miniera. I tre si trovano in una quotidianità noiosa e passano il tempo a cercare sull’iPhone possibili lavori, mandando a quel paese il capitalismo ma allo stesso tempo sguazzandoci dentro. Prima provano a diventare guardie del corpo di un boss mafioso, interpretato dal regista, e poi provano ad entrare nel mondo dello spettacolo, partecipando ad un filmato di promozione per un area per turisti. Nel primo caso non riescono nel tentativo per motivi d’età, nel secondo perché uno di loro si rende conto che i vestiti tradizionali che stanno indossando appartengono ad epoche imperiali diverse – e viene licenziato sul colpo, con gli altri che necessariamente lo seguono.
Una cosa notevolissima da considerare è il fatto che The Hedonists è probabilmente l’unico pezzo della filmografia di Jiǎ Zhāngkē in cui è presente un fortissimo umorismo quasi surreale, con una grande enfasi sul carattere angosciante dell’inadeguatezza nella società contemporanea, la cui rappresentazione qui non è dissimile a quella di Mountains may depart: è come se questo corto fosse una versione divertente e “al maschile” del film precedente, un controcampo, un riflesso, un pezzo mancante del puzzle che si svolge in qualche momento indefinito tra il 1999 e il 2014. E potrebbe non essere un caso che Zhao Tao abbia partecipato alla sceneggiatura, forse aggiungendo alla visione sociopolitica del marito un brio che è lo stesso che spesso si vede nei suoi sorrisi nei film di Jiǎ. E quel sorriso viene in mente anche nelle melanconiche scene dei protagonisti che vanno insieme in moto lentissimi, come se il mondo attorno a loro continuasse inesorabile a fluire velocissimo e digitalizzato mentre loro rimangono controcorrente e bloccati in loro stessi. Sono appassionati e puntigliosi nei confronti della tradizione, e sono caotici e goliardici quando devono scontrarsi per impressionare il boss. Entrambe le situazioni di lavoro che si creano sono situazioni cinematografiche: inscenare una lotta, inscenare il passato. Sono entrambi dei balli artificiosi, musicati e filmati come se appartenessero ad un cinema cult, tra il pop e il film in costume, con un montaggio dinamico e dei dolly virtuosistici come mai nella carriera di Jiǎ. È tutto un finto allenamento alla non-realtà che si crea nel contemporaneo, un allenamento fallito perché questi uomini tradizionali, che sono gli uomini che il regista ama e gli uomini che il regista supporta e inventa e reinventa ad ogni nuova opera, sono davvero esseri umani, reali. Sono personaggi fittizi ma sono figli della realtà cinese e della tradizione: il futuro non esiste, non esiste ancora, è lontano, e comunque se ci si arriva ci si va molto lentamente, con pazienza e un sorriso speranzoso – che potrebbe scomparire, ma che c’è e che per questi uomini è, sostanzialmente, tutto quello che è rimasto. Il cinema di Jiǎ Zhāngkē è una lotta che si manifesta con la rappresentazione dello sconforto, sempre, che sia una lotta effettiva anche in immagini (v. A touch of sin, 2013) o che sia un rilassato allontanarsi verso l’orizzonte, con il disagio internalizzato nel corpo operaio e pronto per essere tramutato in immagine.
Nicola Settis