LA VERA STORIA DI OLLY MÄKI (2016), di Juho Kuosmanen
Spesso si possono raccontare bellissime storie nella loro semplicità e piccolezza, storie poco conosciute, mai realmente esposte e di dominio pubblico. E a volte, come nel caso del finnico Juho Kuosmanen con Hymyileva mies, titolo internazionale The Happiest Day in the Life of Olli Mäki, vincerci con merito Un Certain Regard a Cannes.
Olli Mäki è un ragazzo, un uomo insicuro, un po’ timido e sbarazzino, che corre in bicicletta tra i boschi con la sua amata e ama perdersi nella natura, è un’anima riflessa da una terra cangiante che nulla sa del suo futuro, e forse nulla vorrebbe sapere. Olli Mäki è comunista, vive attraverso il popolo e così non lo vuole deludere. Olli Mäki è un pugile, di quelli di talento ma pure di una palestra polverosa, di tanta fatica e poche certezze. Olli Mäki potrebbe fare la storia di tutti, e invece come tutti non fa altro che fare la sua, anche nel giorno più bello della sua vita. Il giorno in cui crede davvero di amare, pensando davvero di essere amato. Il diciassette agosto millenovecentosessantadue – così, in lettere, un po’ vintage – è su un ring, con gli occhi del suo Paese di fronte. Ha lasciato il suo Paese per allenarsi ed essere lì, ha perso peso e con lui tutta la sua spensieratezza, al cospetto del trionfo atteso una vita. Pressioni e riflettori, soldi e scommesse, non può fallire e lo sa. Invece fallirà miseramente, al tappeto dopo due riprese, ma per lui quel diciassette agosto vale ben altro. Il controcampo della sconfitta sarà il dolcissimo abbandono alla vita ed al suo destino: dopo aver passato anni a farsi scegliere, finalmente sceglierà.
Fotografato in uno splendido 16mm in un quattro terzi senza tempo, in un malinconico e asciutto bianco e nero, questo è un film che appare necessario nella sua libera semplicità. Non tanto per la valenza artistica, tanto meno per l’esperienza personale di Olli, ma senza dubbio per l’onestissima esigenza di raccontare, di tornare a fare quel cinema impressionato dalla vita, riflesso di quella vitalità smaccatamente nouvelle vague che assorbe tutto, e tutto rende “cinematografabile” a patto di non tradire alcuna forma di sincerità. Si ha l’impressione di stare lì, in un’ansa nascosta di realismo e poetica che trasuda sentimento e fatica, che abbraccia il cuore e che si concede dolcemente agli occhi. Kuosmanen ha ben presente tutto ciò, e mentre incede la cronaca del match che avrebbe dovuto far del pugile un eroe nazionale, questo peso non incombe affatto sopra il film, e anzi lo modula continuamente, ne fa prendere le distanze in modo sornione ampliandone profondamente la propria visione. Lo scrittore e regista finlandese è ben più interessato ai riflessi e alle ferite che la vita lascia su Olli piuttosto che a una vacua messinscena della sua esperienza personale, così come mai il film è funzionale alla macchina da presa, ma è la stessa macchina che si aggira liberamente intorno alle esperienze in cui spesso lo stesso Olli appare perso, anche se mai perdente.
La libertà è alla base di tutto, quella dell’autore nel traslare tra l’ispirazione documentarista sulla vita del pugile e il romanzo d’amore e di formazione, quella del protagonista confinata in un dualismo quasi inconciliabile, le ambizioni sportive e professionali riflesse in tutto il Paese da una parte, e dall’altra un’intimità emotiva che sempre più lo porta a tornare sui propri passi. La scelta estetica e linguistica, che vuole in ogni modo rispettare l’unità reale della storia, non appare mai semplicemente e ostinatamente nostalgica, ma ampiamente necessaria nella personalissima ricerca di un’autenticità emotiva; così come allo stesso modo il continuo cambio di registi dal tragicomico di classico stampo nordico al più profondo scavo esistenziale e psicologico non fanno altro che sottolineare l’importanza che ha l’autore (e qualsiasi spettatore) nell’accompagnare Olli in questo viaggio, come se fosse continuamente nuovo, e mai lo stesso, nonostante più di cinquant’anni siano passati. In fondo The Happiest Day in the Life of Olli Mäki è un film dolce e denso, che si muove continuamente sfiorandoci e scivolando dentro di noi. Un film di tenerezze, che con la sua sfrontata spontaneità ci può ancora insegnare come qualsiasi Storia si possa inchinare alle storie, dove il giorno più bello della vita può essere allo stesso tempo il più drammatico, è solamente una questione di amore e di prospettive. E cosa possono essere nel cinema questi due frammenti, se non le sue radici fondamentali al cospetto della modernità?
Erik Negro