THE HALT (2019), di Lav Diaz
A consacrazione festivaliera avvenuta ormai da tempo, Lav Diaz sa benissimo che non deve lasciare cadere il suo cinema nella maniera, e nella ripetizione sclerotizzata di una formula stilistica distintiva. Negli ultimi anni è dunque già capitato alcune volte che egli provasse a percorrere strade non ancora battute – ed è il caso anche di questo Ang Hupa, o se si preferisce The Halt nel titolo internazionale, parabola distopica ambientata nelle Filippine di un futuro prossimo in cui, letteralmente, il sole non sorge più, oppresse da una spietata e capillare dittatura militare (il cui primo strumento di controllo, prendere nota please, è l’istituzione di vaccini obbligatori). In questa notte perpetua, nella quale sparuti oppositori tentano invano di alzare la testa sotto gli occhi di onnipresenti droni governativi, il racconto si dipana in modo relativamente veloce per gli standard diaziani, con il montaggio che segue a ruota; altrettanto inusuali sono scene che, se non di massa, spiccano per l’uso abbondante di comparse. E abbandonate le montagne e l’entroterra rurale di tanti suoi film, Diaz si concentra (ci torneremo) su uno spazio claustrofobicamente urbano, di estensione e geografia imprecisate, come imprecisi sono i confini tra la suburbia di élite e i quartieri più popolari, slum inclusi. Lo scenografo è cambiato, e si vede: ora che i totali fissi diaziani, sparito il paesaggio, coprono giocoforza una porzione di spazio meno estesa, essa viene comunque virtualmente allargata “stiracchiando” la profondità di campo, non solo attraverso il gioco di diagonali innescato dalle angolazioni, esse stesse un po’ più spericolate del solito, ma anche e soprattutto stratificando l’inquadratura grazie a un lavoro scenografico che, sotto il segno di un’eterogeneità visibilmente costruita, colloca molto spesso in primo piano dettagli d’ambiente che quasi sempre riproducono il caos di spazzatura, detriti e varia “informalità” che tipicamente caratterizza le metropoli del terzo mondo.
È facile che davanti a queste novità lo spettatore, anche quando smaliziato e avvezzo al cinema diaziano, rimanga perplesso. È comprensibile, soprattutto, che si nutrano dubbi verso la assai scoperta parabola politica intessuta dal regista di Melancholia. Impossibile non riconoscere dietro la mimica esagitata del despota Nirvano Navarra l’attuale premier filippino Rodrigo Duterte, del quale ritornano svariate pose e politiche, tra cui il discussissimo sterminio di migliaia di individui etichettati, spesso arbitrariamente, come tossicodipendenti. Come lui, Navarra mescola svariate abiezioni autoritarie a prese di posizione francamente molto condivisibili, e che anzi, come nel caso delle sue dichiarazioni anti-imperialiste, o delle sue citazioni da Rainer Maria Rilke, non ci sorprenderemmo per nulla di ritrovare in qualche intervista dello stesso Diaz. Il suo successo viene insomma dall’avere due teste, come il mostro del precedente Season of the Devil. Mostri del genere, Ang Hupa lo ribadisce a più riprese, vengono creati non tanto e non solo dal sonno della ragione, ma soprattutto da quello della memoria, e su questa scorta un buon numero di paralleli vengono tracciati con il precedente dittatore Marcos. Ma qualcosa non torna. Navarra è una macchietta buffonesca e caricaturale, un pazzoide che getta ai coccodrilli brandelli di carne di drogato, parla con gli struzzi e quando è da solo in casa si veste da donna e si lascia andare a deliranti monologhi mitomaniacali. Possiamo certo vederci il ruspante Duterte – ma allora che ne è del parallelo con Marcos, uno che Diaz stesso ha più volte descritto come un genio del male ahinoi lucidissimo e tutt’altro che folle? Non è chiaro, insomma, in che modo nello specifico la dittatura passata rivive in una presente che appare segnata, anche, da profonde differenze. Senza contare che gli atteggiamenti eccessivi e squilibrati del premier in carica potrebbero essere non semplice follia, ma assai più probabilmente il risultato di un freddo calcolo mediatico e di immagine.
Questi dubbi, tuttavia, finiscono per sciogliersi come neve al sole. Dopo più di tre ore in cui la parabola politica gira abbastanza letteralmente a vuoto, senza che sembri profilarsi alcun esito narrativo per i prevedibili tentativi di golpe, per le lotte intestine nei palazzi del potere e per un’opposizione che non riesce a trovare una forma o, come vogliono le convenzioni del genere fantapolitico, finiscono per farsi contagiare dal medesimo autoritarismo violento dei propri nemici (alcuni dissidenti fondano una specie di setta di adoratori del sangue fresco), Diaz infila un geniale twist che nell’ultima ora ribalta come un guanto tutto quello a cui abbiamo assistito fin lì. Il cineasta filippino sa benissimo, infatti, che la sua non è una parabola, ma una allegoria, e che quest’ultima si differenzia dal simbolo perché, invece di tracciare una corrispondenza di significato stabile, accatasta segni su segni i quali, insieme, non formano un sistema significante compiuto, ma si danno piuttosto come le rovine del significato. L’allegoria, insomma, per definizione non si chiude, e per questo l’anarchico dissidente Hook Torollo (nome giustamente pynchoniano in quello che è senz’altro il più pynchoniano dei film di Diaz) manca il momento giusto per sparare a Navarra, servitogli su un piatto d’argento dalle circostanze. Lo stesso Hook, dopo essersi tenuto perlopiù alla larga da qualsiasi tentativo di azione politica un minimo strutturata contro la dittatura per tentare invece una sorta di “resistenza passiva”, dà il definitivo addio alla lotta armata per occuparsi degli orfani di strada – ed è questo gesto che imprime a Ang Hupa, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes72, una svolta decisiva.
Con questo improvviso colpo di spugna, l’impossibile ricostruzione di una totalità di senso per vie narrative viene abbandonata e, potremmo aggiungere, lasciata a quelli che si ostinano a giocare coi troni e con le spade nascondendosi all’infinito questa impossibilità episodio dopo episodio. Al posto di una impercorribile via temporale (e cioè narrativa) verso la totalità, il riconoscimento che la chiusura mancata della totalità è già lì, in forme spazializzate, nel tessuto urbano stesso. L’intricata allegoria filmica che lungo più ore accumula segni su segni facendone un ammasso di rovine invece di coagularli in una narrazione coerente, si trasforma di colpo nella presa di coscienza che la chiave dell’allegoria ce l’abbiamo avuta davanti agli occhi per tutto il tempo: nel suo essere un irredimibile ammasso di rovine a cielo aperto a prescindere dagli sforzi di essere “gated” da parte di chi può, la metropoli del terzo mondo è, letteralmente, l’allegoria. Prendere la questione dal lato temporale della conquista del potere, significa prenderla dal lato sbagliato: il potere finisce inevitabilmente per fagocitare se stesso, e persino Navarra potrà legittimamente venire visto come una vittima e dotarsi di qualche genuina umanità – fino a diventare probabilmente uno dei personaggi del film che ispirano più simpatia. Per forza di cose, il deep state fagociterà anche lui e le cose rimarranno grossomodo uguali: meglio dunque distogliersi dalle dinamiche di potere e agire sul livello veramente importante, che è quello dello spazio urbano. Con una mossa geniale che sarebbe un peccato svelare, il film chiarisce con inequivocabile evidenza grafica che a sconfiggere Navarra sarà solo la forbice tra uno pseudo-sviluppo immobiliare totalmente inconsistente e di facciata, e invece la fisionomia profonda della metropoli eternamente sottosviluppata: la stessa forbice programmaticamente divaricata nei film di Lino Brocka per contrastare la retorica di Marcos. E facendo sua la lezione del Maestro per portarla più lontano, Diaz lavora sulla scenografia in modo da dipingere gli interni (anche solo con qualche mobile disarmonicamente abbinato, o con qualche utensile da cucina fuori posto) come abitati dallo stesso, metodico, eterogeneo caos delle inquadrature in esterni, a prescindere dalla diversità dei materiali di partenza. Vanificando visivamente la distinzione tra interno ed esterno, Diaz ci ribadisce che è impossibile pretendere, come cercano di fare le élite, di isolarsi da un tessuto urbano infernalmente magmatico (slum inclusi), e che l’unica azione politicamente possibile e rilevante sarà un’azione che interviene, da dentro, come reazione responsabile a quella spazialità.
Poco importa se questo disegno allegorico di inoppugnabile consapevolezza intellettuale finisce per togliere un po’ di quell’intensità emotiva che in molti altri film di Diaz toglieva il fiato, e dunque alcune delle scene madri (incentrate in genere sulla morte imminente di questo o quell’oppositore, che si lasciano dunque andare a un ultimo disperato monologo) sono meno coinvolgenti di quanto sarebbe stato auspicabile. Con il radicale cambio di prospettiva descritto più sopra, che ci costringe a spostare lo sguardo su quello che più conta e che abbiamo avuto sotto gli occhi tutto il tempo, Ang Hupa spazza via qualsiasi dubbio e diventa l’ennesimo capolavoro diaziano. Una disamina del presente attraverso la trasfigurazione distopica del futuro, che identifica correttamente l’aspetto chiave del totalitarismo in una prospettiva temporale deterministica che Diaz smantella dal di dentro, parallelamente a come sovverte dall’interno l’estetica ultracontemporanea della sorveglianza con i suoi totali fissi (qui più esplicitamente del solito per via dei droni diegetici). Lo fa da un lato, come suo solito, seguendo da vicino la forma segreta del tempo infischiandosene della lunghezza e della subdola ottimizzazione apportata da un certo montaggio; dall’altro, facendo di questo smantellamento il soggetto stesso di una delle sottotrame di cui è fatta questa allegoria che, giustamente, non si chiude. Rispetto a questa folgorante sottotrama, si rimanda direttamente alla visione di Ang Hupa, esperienza che nessuna analisi potrà mai lontanamente sostituire – e che inversamente, a differenza di quanto accade aggrappandosi a troni e spade, nessuno spoiler potrà mai nemmeno avvicinarsi a scalfire.
Marco Grosoli