THE GULF (2017), di Emre Yeksan
“Questo è un vicolo cieco”, viene espressamente detto a Selim mentre vaga senza meta per le vie di Smirne. Il protagonista è fresco di divorzio e della perdita del suo lavoro a Istanbul, è tornato nella sua città natale, ponte fra il suo passato e il suo futuro, e (anche) lì si perde, non la può riconoscere, fino a rimanere invischiato nelle sabbie mobili della Turchia di oggi. Una Turchia di macerie, litigiosa, fumante, fatta di paradossi fra le case curate e i muri scrostati delle cantine, fatta di lavori umili e di orfani; una Turchia di bassifondi, nella quale una petroliera che prende fuoco è uno spettacolo alla quale tutta la cittadinanza non può che accorrere e un bambino orfano in una baraccopoli non può che chiamare tutti “papà”. È una Turchia nella quale è sempre più difficile ripartire, ritrovare se stessi, trovare un reale futuro: tanto vale mettersi a giocare a pallone, tornare bambini, correre, passare la palla e scartare per riuscire ad avere, almeno su un campetto polveroso, un ruolo.
Sta tutta nelle sue metafore la potenza di The Gulf, sorprendente esordio di Emre Yeksan presentato a Venezia74 nella 32ma Settimana Internazionale della Critica che si pone come apologo e ricerca al contempo geografico-sociale e antropologico-esistenziale, sta tutta nei simboli messi in scena. A partire dalla finta Bocca della Verità dei baracconi che si pone come un oracolo elettronico di eterna inaffidabilità per arrivare all’espandersi di un fetore fastidioso, (in)sostenibile, (in)arrestabile: la (propria) terra puzza, tutti fuggono, ma Selim sopporta, resiste, non ne è toccato più di tanto, ne è assuefatto, come se i suoi sensi fossero immuni ai miasmi perso com’è fra i ricordi dolorosi e la forsennata ricerca del senso della propria fragile e provvisoria vita.
Selim torna nella casa nella quale è cresciuto, torna insieme alla sua famiglia, ai genitori che lo riaccolgono e a una sorella che lo protegge come se fosse ancora un bambino, una creatura indifesa, che poi è il sostanziale ruolo dell’uomo in un mondo troppo grande e troppo ostile. Selim è silenzioso, magari apparentemente catatonico davanti alla televisione, magari appesantito da un passato spartito fra ricordi, rimpianti (la ex storica con la quale chiudere un discorso lasciato aperto per troppo tempo) e rimozioni (il vecchio commilitone dei tempi del servizio militare, ambiguo fra l’amicizia e un’inquietante invasività, che diventerà per Selim una sorta di guida nella riscoperta dello spirito umano a partire dalle piccole cose, dalla condivisione, dalla capacità di guardare avanti), ma non è mai passivo: è un uomo che costantemente si interroga su se stesso e sulla natura dell’essere umano, sulla sua vita e sulla sua città, sui suoi ricordi da bruciare e sulle sue aspirazioni da trasformare in realtà.
The Gulf parte dal viaggio di ritorno, con Selim sballottato su una corriera, e si chiuderà con un pestaggio subìto da parte della polizia, con i bambini che sfasceranno per gioco un’automobile, ma anche, nonostante tutto, con uno sguardo di speranza verso il futuro. Perché la speranza non muore mai, basta saper accettare la nostra provvisorietà, basta ripartire anziché piangersi addosso, basta chiudere i conti con il passato, abbandonarlo per concentrarsi su quello che ancora deve arrivare. Quello di Selim è un ritorno che si rivela una costante fuga, dagli eventi e dall’assurdità di una società fetente, vissuto come un percorso verso l’autocoscienza e l’autodeterminazione alla costante (ri)scoperta intima e del circondario. Come quando, in un centro commerciale ormai pressoché vuoto nella fuga generale dai miasmi, gli unici senza mascherina ospedaliera né maschera antigas sono proprio Selim e una tartaruga, simbolo di lentezza e di lunga vita.
Selim, antieroe alle prese con l’antimondo di oggi, porta avanti la sua vita in inevitabili cambi di tono, che Emre Yeksan mette in scena fra il dramma che stringe come un cappio e una surrealtà che non di rado strappa amare risate, fra rigorose inquadrature fisse e piani dell’immagine gestiti come piani narrativi quasi indipendenti, fra scarti dal filone principale e discorsi vacui che si moltiplicano intorno al protagonista, fino a lambire quasi i confini dell’horror quando si presenterà di fronte a Selim una bambina dalle labbra arse e cicatrizzate che parla una lingua incomprensibile come il futuro. La Turchia che Yeksan rappresenta, scandita dallo scorrere di giorni tutti uguali e tutti diversi nella loro progressiva marcescenza, è spartita fra le chiacchiere delle donne e la necessità di arrangiarsi vendendo dischi in vinile usati, fra il tentativo di ricreare un proprio microcosmo e intere famiglie sfrattate, fra la desolazione di chi si sente abbandonato e le automobili riverse per strada come una barricata, fra le ingiunzioni di pagamento e le baraccopoli come unico luogo nel quale ancora l’uomo è semplicemente un essere umano e un amico, e non certo in ultimo fra il fango che letteralmente avviluppa il protagonista e un rogo che permette finalmente di liberarsi del passato per ripartire daccapo. Anche se l’incubo non è ancora finito.
Selim, forse come ogni essere umano, si ritrova impantanato in una palude, e in questa palude Emre Yeksan lo segue con la passione di un neorealista, mentre il film prende strade anomale, impreviste, originali e spiazzanti. È un lavoro estremamente denso, The Gulf, un film che rapisce subito e poi attecchisce lentamente, ripresentandosi alla mente anche a diverse ore dalla visione. È un film che, specialmente nella seconda parte, forse ha anche qualche lungaggine e un po’ troppa carne al fuoco, ha forse qualche pennellata di troppo sulla sua tela, ha forse qualche punto che non torna alla perfezione, qualche suggestione destinata a non concretizzarsi, a rimanere inafferrabile. Ma non è assolutamente questo il punto: The Gulf è un esordio prezioso, ambizioso e intelligente; è un film d’impressioni e di sensi, pronto a stimolare pure quell’olfatto che allo spettatore, come al protagonista, manca; è un trattato al contempo antropologico, metaforico e politico, fatto di simboli e di afflato proletario. È un film bruciante, crepitante come il fuoco sulla petroliera, o come quello che proietta finalmente Selim verso il futuro distruggendo i suoi rimpianti. È un film sull’uomo, sperduto e fragile, triste e sensibile, ma (ancora/di nuovo) vivo.
Marco Romagna