THE GREAT BUSTER: A CELEBRATION (2018), di Peter Bogdanovich
«Perché essere difficili quando con un minimo sforzo potete diventare impossibili?»
Buster Keaton
Tornare sulla figura di Buster Keaton è necessario ma allo stesso tempo audace; da una parte il materiale freddo, dall’altra l’esperienza da rievocare. Peter Bogdanovich, da sempre cineasta ancor prima che autore, ci prova nuovamente in un saggio televisivo che vuole essere didattico ben più che didascalico, e che trova la sua forza proprio in un lavoro d’archivio quanto mai minuzioso al quale manca solo (e non sappiamo se ne esista traccia) l’esperienza diretta di Keaton sul set, che speriamo un giorno di poter vedere. The Great Buster è così in sostanza e già dal suo sottotitolo un film celebrativo, legato alle copie oggi restaurate e legate assieme da un tratteggio umano della figura straordinariamente complessa (interventi, tra gli altri, anche di Herzog e Tarantino) del grande artista e mimo, ricordata anche attraverso molti aneddoti. Di mezzo, ovviamente, ci finisce anche Hollywood; quella fabbrica dei sogni che lo stesso Bogdanovich conosce benissimo e che risultò per Keaton un incubo a occhi aperti. Il risultato dell’operazione rimane spesso confinato alla finalità educativa (che da Bogdanovich sarebbe stato probabilmente lecito aspettarsi più approfondita e critica) del film, ma la possibilità di vedere prestazioni insolite e sconosciute del gigante di Piqua risulta quanto mai affascinante ed abbagliante. Ed è già il suo percorso iniziale a stupire, tra predestinazione e alterità.
Un alieno? Forse. La figura di Keaton apparve subito come astratta, disumana, materica. Figlio (il)legittimo delle sperimentazioni vaudeville di inizio Novecento, attraverso una serie di spettacoli (anche assai pericolosi) on the road, vide la sua fama crescere con quella della propria famiglia. Ci si accorse subito però che l’enfant prodige era lui, algido, spaziale e così distante. Erano gli anni d’oro del cinema burlesque (i fratelli Marx, Laurel e Hardy, Harold Lloyd e lo stesso Charlot stavano per esplodere) e anche per il giovane Buster il passaggio dal palcoscenico al set fu quasi necessario. Ed ecco i primi cortometraggi della Comique Foil Corp, sotto l’egida del geniale e controverso “Fatty” Arbuckle. Ed ecco esplodere il cascatore (“buster”) Keaton, con il suo volto di pietra bianco e scavato, con i suoi occhi così magnetici e glaciali. Ed ecco l’esordio al lungometraggio (anche come autore), con il folle The Three Ages, parodia del mostro sacro Griffith. Arrivarono così i primi elogi, anche da eminenze intellettuali come i pensatori surrealisti che vedevano nel suo lato decontestualizzante una potente arma rivoluzionaria. Da quel momento, una serie di capolavori hanno rappresentato per molti – anche per chi scrive – una delle vette fondamentali di tutta l’epopea muta. Sono questi i film su cui Bogdanovich si sofferma maggiormente nella seconda parte del documentario, che ricorda come il grande Buster venne accolto a Venezia per il Leone alla carriera tra stupore e commozione. Sherlock jr e The Navigator, Battling Butler e The General, solo per citarne quattro. Tutto bene? Forse. L’uragano delle major era pronto a scagliarsi su Keaton, mutandone anche la personalità, la visione della propria vita oltre a quella del proprio cinema.
Proprio su questo punto della carriera, come del destino, Bogdanovich ci regala la parte più interessante del film. A iniziare dal periodo MGM, da quella libertà negata all’autore/attore che in breve tempo lo farà naufragare, complice anche quell’epoca muta che stava per chiudersi in favore di una sonorizzazione distante dalla sua purezza. Ed ecco i problemi familiari, ecco quelli – ben più gravi – con l’alcool. La vita di Keaton diventa quella di un genio in gabbia, distante dalle possibilità di esser espresso e così rinchiuso in un paradigma produttivo che finisce per schiacciarlo. È il tempo del periodo “pubblicitario”, costretto a realizzare decine di sketch (alcuni davvero fantastici) fino all’essere protagonista di uno spot surreale e folle per le ferrovie canadesi. L’ultima vita di Keaton, mai così cattivo contro il sistema che l’ha annientato, è quella prospettata verso un futuro dove potesse essere ricordato (con i camei nei film per i più giovani o le prestazioni uniche in ambiti più sperimentali – Film di Beckett in particolare) nella sopravvivenza al suo stesso cinema – soprattutto quello folgorante degli anni ’20 -, e nella capacità come nella possibilità di reinventarsi. Al di là di tutto questo rimane Limelights, Luci della Ribalta, l’incontro con Chaplin che chiude un epoca nell’atto stesso di definirla; epigono sublime e lacerante di quella che oggi più che mai potremmo definire come età ineguagliabile del cinema. Da quell’incontro forse l’aneddoto più bello, con Keaton che davanti alla macchina da presa sussurra a Calvero/Chaplin come lasciarsi morire. Una rincorsa possibile del tempo perduto là dove tutto sembrava oramai perso, un ultimo bagliore come stella cadente che ancora oggi possiamo ammirare. Bogdanovich decide di chiudere questa amata, ingenua e spassionata dedica con l’archivio della Biennale, il giorno in cui quell’esperienza così unica venne coronata con il premio più importante della Mostra. La leggenda vuole che fu il più lungo applauso mai riservato a nessuno dalla Sala Grande. Sul volto di Keaton al Lido (proprio su quel volto così astratto, asettico, distante) una sensazione di sorpresa ed emozione, impagabile ed impensabile. Pensava di essere stato dimenticato e non lo era a mezzo secolo dalle sue sperimentazioni, così come non lo è ora a un secolo dai suoi capolavori, e non lo sarà mai fin quando l’uomo continuerà a interrogarsi su cosa sia il cinema, sulla sua purezza, sulla sua genialità. Per sempre dovremo passare (e magari fermarci) proprio sul grande Buster.
Erik Negro