Violentissimo, respingente, impietoso, profondamente divisivo. Eppure va detto che questa volta, rispetto alle ultime due indecenti incursioni di Fatih Akin sugli schermi festivalieri e al netto di troppo sangue e troppo irritante autocompiacimento, in The golden glove – distribuito con il didascalico titolo italiano Il mostro di St. Pauli – qualcosa di interessante ci sarebbe pure. Perché è un vero e proprio girone dantesco, quello messo in scena nel nuovo lavoro con cui il regista nato ad Amburgo torna alla Berlinale quindici anni dopo averla vinta con La sposa turca, è un viaggio nello squallore, è un’ode almeno a tratti affascinante al brutto e al degrado, che prende le mosse da una minuziosa ricostruzione di quei primi anni Settanta in cui Fritz Honka, assassino di almeno quattro anziane prostitute, agiva indisturbato nel Red light district di St. Pauli per addentrarsi in una carrellata di sottoproletari alcolizzati, sdentati, meschini, superbamente raccapriccianti. Uno stormo di reietti, ancora vivi eppure già morti, che al vento di crescita della Germania in pieno miracolo economico avevano preferito la bottiglia e i denti marci, la vita per strada e la completa incuria, l’abbandono e la carne flaccida, la solitudine e la sporcizia, la deformità e soprattutto la bruttezza, esteriore e interiore, come programmatico intento di una Germania incapace di integrarsi in se stessa. Magari proprio mentre i vicini di sotto, greci, vivono una vita perfettamente normale e inserita nel tessuto sociale. L’intento di Akin è chiaro, e sulla carta nemmeno così scontato: The golden glove non vuole ragionare sul male, ma arriva dopo, quando il male è già un qualcosa di palese e assodato di cui non si può fare a meno, per navigare nell’oscuro e nel rimosso, in quel microcosmo di invisibili talmente emarginati da aver permesso a un altro emarginato, invisibile quanto e più di loro, di ucciderli e conservarne parti dei cadaveri in casa, dissimulandone malamente i miasmi della decomposizone con una foresta di Arbre Magique al pino silvestre, senza che nessuno se ne rendesse nemmeno conto.
Erano vittime, quelle della barbarie di Honka, di cui proprio come del carnefice banalmente a nessuno importava nulla e delle quali nessuno ha mai denunciato la scomparsa, disposte a recarsi volontariamente a casa di un essere violento, immorale, sgraziato e dall’aspetto più che respingente per farsi ripetutamente picchiare, stuprare e magari uccidere pur di bere un bicchiere in più. Vittime adescate, appunto, al “Der goldene Handschuh” del titolo originale, il bar(accio) più squallido, sporco e malfrequentato nel più degradato quartiere di Amburgo, la più decadente città portuale della Germania degli anni Settanta, quotidiano teatro (o forse cimitero, fatto di pareti, tende pesanti a bloccare il sole e schnapps) di risse e di personaggi assurdi, abietti, dipendenti dal sesso e dalla violenza. Un luogo in cui Fritz Honka, impercettibile già per la società del tempo e ora pressoché rimosso persino dalla Storia, era apparentemente solo uno dei tanti. Ed è un paradosso che proprio qui, in quella mappatura sociale di Akin che ricostruisce così minuziosamente il mondo di squallore e il punto di vista un serial killer rinunciando del tutto e con intelligenza all’elemento “giallistico” delle indagini e di una fuga che, semplicemente, non è mai stata necessaria, stia il maggior punto di interesse e al contempo il più affossante limite di The golden glove / Il mostro di St. Pauli. È un problema, radicale e insormontabile, non di tematica e forse, pur con troppi elementi lanciati e non sviluppati (in testa il quasi alter-ego “normale” di Honka, il ragazzo pulito ma dai tratti spigolosi che nient’altro è che l’opposto passivo dell’omicida, quello che si fa pisciare addosso dai violenti, quello che fugge, quello che probabilmente non riuscirà a prendere il cuore della bella e algida biondina ma che per lo meno può sognarlo), nemmeno di narrazione, ma prettamente di sguardo, in cui è paradossale come tutto ciò che pochi mesi fa è stato scritto da molti e a sproposito riguardo il capitale The house that Jack built di Lars Von Trier si adatti alla perfezione, e questa volta con drammatica ragione, al lavoro di Akin.
Perché non c’è il minimo barlume di speranza, in The golden glove. Perché non c’è la minima pietà nei confronti degli esseri umani, sbattuti sullo schermo come mostri da guardare, giudicare e trovare ripugnanti, magari sentendosi, all’apice dell’ipocrisia, migliori di fronte alla loro rovina, degenerazione e assoluta bruttezza. E soprattutto perché la violenza è realmente esibita, fiera e compiaciuta nel suo estetizzare il rivolo di sangue, il pugno in faccia, il soffocamento e la testa mozzata mentre, con le inopportune incursioni di Akin nel comico e nel grottesco che, fra abbandoni in strada per coma etilico, dentiere rotte da riparare e sesso fra deformi che non si riescono nemmeno a guardare da quanto sono respingenti, finiscono quasi per giustificarla, per renderla in un certo modo simpatica, in una disparità di trattamento inaccettabile e insincera fra un carnefice che sembra quasi più una vittima di se stesso e le sue reali vittime talmente idiote, sporche e tragicamente ridicole da porsi quasi come la provocazione senza cui la furia omicida non si sarebbe mai scatenata. Cercano bottiglie in giro per la casa come se fossero un tesoro, scroccano, vivono per strada, puzzano già da vivi quasi quanto puzzeranno da morti. Cinici e bugiardi, regalano il loro flaccido e cadente corpo alla lussuria e al ludibrio altrui come fosse un involucro senz’anima, tradiscono, fuggono con altri ubriaconi, promettono e non mantengono, giorno dopo giorno sempre più repellenti, marcescenti, ripugnanti nel loro ballare le agghiaccianti versioni tedesche dei successi rock del tempo e nel loro viscido trascinarsi quotidiano.
È evidente come, fra gli anni d’ambientazione, il tessuto di emarginati e le ricerche cromatiche fredde e oscure, The golden glove voglia guardare scopertamente al Nuovo Cinema Tedesco degli anni messi in scena, quelli di poco precedenti alla Germania in Autunno, quelli in cui non era affatto certo che otto ore facessero un giorno e in cui era la paura, fra le lacrime amare (di Petra von Kant e di tutti gli altri) a mangiare l’anima. Ma, all’intima e straziata umanità fassbinderiana, Akin risponde con un ribaltamento del punto di vista verso l’impietoso, che cerca solo il lato oscuro delle vittime trovando troppo spesso, nel mettere in scena la loro putrescenza, il più puro cinismo e uno spietato appagarsi nel loro quotidiano orrore, quasi come se si fossero in un certo senso cercata e meritata la fine che hanno fatto. Mentre il protagonista, con il suo alcolismo (nel quale magari ricadere dopo essersi ripulito e aver trovato un nuovo lavoro proprio per i continui inviti a bere di chi subirà a breve un tentativo di stupro) e la sua impotenza che nemmeno la parete tappezzata di foto porno riesce a curare come cause pressoché uniche della sua follia violenta e omicida, oppure con il suo sogno (ovviamente impossibile e quindi surreale fra macellerie e pezzi di carne) di un amore normale con la giovane fumatrice incontrata per strada, sembra responsabile solo in parte dei suoi macabri atti, ricostruiti da Akin, ad eccezione delle probabili violenze sessuali sui cadaveri e di pochi fra i dettagli più truculenti consumati nel fuori campo coperto da uno stipite, senza censure, senza lesinare sul raccapricciante, sul perverso, sul malato, sul nudo e cadente. Tanto da decidere, come a guisa di excusatio non petita per dichiarare, gesuiticamente, di non aver calcato la mano, di giustificare nel finale pure se stesso, con tanto di fotografie “vere” che esplodono nei titoli di coda a mostrare come tutto fosse perfettamente “reale”, preso e ricostruito pezzo dopo pezzo. Finendo inevitabilmente per far suonare la sua scelta, più che come una dichiarazione di entomologia, come un’ammissione del cinismo di chi invece la mano l’ha consapevolmente e colpevolmente calcata, senza mezze misure, senza mezzi termini, senza la minima umana pietà. Non basta di certo il discorso a latere, interessante, sugli emarginati e sulle rimozioni, non basta di certo la frecciata sull’integrazione che il regista tedesco di origine turca inserisce con il confronto impietoso fra i veri tedeschi e i greci trapiantati, così come non basta di certo l’omaggio per molti versi ingiurioso al cinema di Fassbinder. Tanto che alla fin fine The Golden Glove / Il mostro di St. Pauli, seppur più convincente rispetto ad altre opere di Akin e di certo forte di un’ottima interpretazione del giovane Jonas Dassler, classe ’96 che sotto al pesante make-up entra anima e corpo in un ruolo folle, nient’altro è che la conferma di una deriva, se non narrativa e tematica per lo meno etica, ormai inarrestabile di un regista che forse mai stato realmente autore. Come possano le selezioni festivaliere non solo accettare il suo cinema così cinico, misantropo e insincero, ma anche continuare a considerarlo fra gli autori di punta della nazione teutonica, è semplicemente un mistero.
Marco Romagna