THE GIVERNY DOCUMENT (2019), di Ja’tovia Gary

A vincere la sezione Moving Ahead al Festival di Locarno 2019 è stato il terzo lavoro di Ja’tovia Gary, un’installazione a singolo canale tramutata appositamente per la distribuzione festivaliera in un mediometraggio di 40 minuti. È The Giverny Document, decisamente tra le visioni al limite più interessanti di questa edizione del Festival. Con quest’opera, che vaga da un estremo all’altro dello spettro delle potenzialità del cinema documentaristico, la Gary compie un atto autoriale interessante nel parlare di rappresentazione e di identità; vede se stessa inizialmente mediante la superficie, il suo essere base, l’etichetta che le viene applicata ma allo stesso tempo anche la sua reale condizione all’interno del genere umano, ovvero essere una donna africana. Giverny si fa difatti portavoce di un discorso molto grande, quello della ‘blackness’, che numerosi autori, di colore come no (v. i lavori di Aldo Tambellini, per fare un esempio radicalmente sperimentale), hanno tentato di rappresentare dall’esterno o dall’interno tentando di cogliere il nucleo dell’essere africani usando il linguaggio visivo per contrastare quello “divisivo” verbale. Il cinema americano, come sappiamo da film come Sweet Sweetback Baadasssss Song o gli esordi di Spike Lee, ha tendenzialmente racchiuso la ‘blackness’ nel racconto di un discorso sociale sulle diversità o sulla ribellione per contrastarne le ingiustizie. La ribellione non attualizzabile pienamente all’interno dei costrutti sociali è viva con l’immagine, e la rappresentazione dunque appoggia l’impulso, tramuta in una visualizzazione piatta e superficiale (lo schermo) e dunque cognitivizzabile ed esperibile quello che altrimenti sarebbe solo un’idealizzazione, alle volte o sovente anche violenta, dell’Es della ‘blackness’. Certo, non è da sottovalutare l’influenza del movimento Black Panther nel dare un’immagine, una voce e un senso ultimo alle proposte ideologiche e artistiche di più generazioni di registi afroamericani, ma se consideriamo che l’immaginario datoci dalle arti visive può costituire una sorta di ricordo alternativo con cui leggere lo spazio e il passaggio del tempo, il cinema ‘black’ ha più che sufficientemente compiuto la missione di dare respiro artistico a un modello di pensiero con una sua mitologia o iconografia memorabili.

Giverny tuttavia è incisivo in un modo totalmente altro. Gary raffigura la ‘blackness’, la propria, e il proprio femminismo, alternando 3 blocchi (spaziali, concettuali, temporali, visivi), ognuno caratterizzato da un diverso approccio filmico: il primo blocco consiste in interviste d’assalto improvvisate per strada, ad Harlem, nelle quali la regista filma in pellicola una serie di colloqui amichevoli tra donne nere di età variabile, chiedendo a ognuna di loro di raccontare che rapporto hanno con il proprio corpo, con il loro essere, con il sentirsi sicure sia in senso universale che in senso locale, sociale; il secondo blocco mostra estratti di una performance di Nina Simone nel 1976, che canta e suona una sua versione di Feelings di Morris Albert al Montreux Jazz Festival; il terzo blocco invece è la parte più densa e unica del lavoro, un gioco di montaggio e di animazione che, con in sottofondo un remix trap di What a Wonderful World, mostra una sinfonia caotica di immagini e colore in cui animazione digitale (effetti geometrici e “pixelosi” di After Effects o simili che rimandano alla mente l’estetica dei recenti video hip hop) e scratch film arricchiscono e completano lunghe e suggestive inquadrature che raffigurano la regista aggirarsi per il giardino di Monet a Giverny. Lavorando molto sulla materialità della pellicola, Giverny parte da presupposti estetici che non avrebbero senso senza un contesto di tipo digitale. Potremmo dire ad esempio che le interviste di strada sono una tipologia di contenuto che, tra YouTube e televisione spazzatura, è ormai onnipresente nella produzione audiovisiva e tornare a filmarli in pellicola come facevano i primi documentaristi che lavoravano in 16mm degli anni ’60 negli anni ’70 significa tornare a una concezione di testimonianza materica unica e non a semplice estratto casuale della vita. Come potremmo anche dire che i video di Nina Simone sono stati ovviamente girati in pellicola ma inseriti in Giverny con un file digitale, o che nel terzo blocco l’autrice fa collimare in maniera davvero brutale il vecchio e il nuovo, Stan Brakhage e Cole Bennett, Louis Armstrong e Pogo, Monet e… Ja’tovia Gary. Ognuno dei livelli lavora su un livello diverso dell’identità della regista, per dare una lettura a sommi capi le interviste raccontano la donna nera da un punto di vista sociale, totale, popolare, il found footage di Nina Simone racconta un archetipo, di donna nera artista rivoluzionaria che scuote le coscienze, mentre infine le riprese a Giverny vedono la regista stessa mettersi in campo, circondata da bellezza, caos, simboli – sembra che voglia dare una visione artistica completa dell’ideale di donna nera allo stesso modo con cui Monet ha rappresentato in modo definitivo le ninfee. Ma mentre Monet dipingeva le sue piante afflitto dalla cataratta (cosa che vende i suoi quadri ancora più affascinanti, come la musica composta da Beethoven quando era sordo), la Gary sembra accecata più che altro dalla complessità del tema, la realtà del montaggio e della rappresentazione del terzo blocco si sfalda per accumulo di informazioni rivelando la disperazione interiore che il primo blocco può solo suggerire e il secondo evocare.

Scrivendo di recente dell’ultimo colpo di Ben Russell, Color-blind, era sorta spontanea una riflessione sul rapporto che si può creare tra l’estetizzazione pittorica del cinema e la missione etnografica di certi filoni del documentarismo; Giverny Document è un lavoro profondamente strutturale che pur lavorando nello stesso ambito, grazie al senso di completezza dato all’approccio su più piani riesce inequivocabilmente a colpire le corde giuste, a far vedere la ‘blackness’ e la concezione personale a essa data dalla regista non più come puro impulso o Es né come mondana messinscena di un conflitto etnico. È un’idea di cinema sociale ed esistenziale veramente appassionante, poiché la sola ricorrenza di un tema proposto con un’alternanza matematica di soluzioni visive completamente distanti l’una dall’altra fa sì che la visione del problema non sia relegata a un approccio chiuso verso le sovrastrutture imposte nel nostro mondo, bensì viva con una tripartizione in cui l’inconscio dello spettatore/spettatrice può incontrare qualsiasi sorta di sensibilità, dalla mappatura del reale odierno fino all’unicità maestosa di Nina Simone passando per il subconscio dell’artista indipendente, che con ambizione iconica e memorabile tenta un affresco di matrice concettuale per una condizione invero fisica. È una visione sia complessa sia semplice, sia intrigante sia ripetitiva, sia armoniosa sia noise. La Gary non supera le barriere della comunicazione e della rappresentazione ma le conosce e le riconosce al punto di poterle sfidare col linguaggio del cinema e dell’installazione: non si fa né portavoce di una rivolta né di un approccio distaccato ed estetico, ma è uno sguardo interno e sfaccettato, un documento che diventa una sinfonia.

Nicola Settis