THE GIRL WITH ALL THE GIFTS (2016), di Colm McCarthy

A questa sessantanovesima edizione del Festival del Film di Locarno, la sera del 3 agosto è stato presentato in Piazza Grande in prima visione mondiale The Girl with All the Gifts, esordio alla regia cinematografica dello scozzese Colm McCarthy, che già aveva diretto vari episodi di serie televisive (fra le quali Doctor Who e Sherlock). Il film è tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza di M. R. Carey, che ne ha scritto pure la sceneggiatura, con alcune variazioni nella scelta delle situazioni, ma mantenendo invariati lo sviluppo e la conclusione. Il primo atto, sia a livello di premessa narrativa che di regia, è molto promettente: nei primissimi istanti del film, lo spettatore piomba in medias res in una sorta di bunker sotterraneo controllato da dei militari, seguendo il punto di vista di Melanie, una bambina che, come tanti altri, viene tenuta prigioniera lì dentro e sottoposta a test psicologici e di intelligenza, nonché legata a una sedia e rotelle per la maggior parte del tempo. Nessuna spiegazione, nessun contesto: allo spettatore si offrono solo gli spazi claustrofobici del bunker, l’aggressività dei militari nei confronti di questi bambini apparentemente normali chiamati “aborti”, e lo spiraglio luminoso offerto dal rapporto tra la protagonista e la dottoressa Helen Justineau, la sua insegnante, nonché l’unica a trattarla come un essere umano. Da lì a breve tutti i pezzi del puzzle vengono ricomposti tramite una serie di sequenze dal fortissimo impatto, e viene spiegata in che condizione si trova l’umanità al momento: essa è a rischio di estinzione, rinchiusa in dei bunker per proteggersi da un’invasione di zombie chiamati “affamati”, nati da un’infezione funginea, che sono guidati dal cieco istinto di azzannare e nutrirsi degli essere umani sani. A differenza dei loro simili, però, i bambini tenuti nel bunker, seppure infetti dalla nascita, presentano facoltà cognitive più o meno sviluppate, mentre la loro fame si risveglia solo al sentire l’odore della carne degli umani; Melanie, le cui capacità mentali sono perfettamente uguali a quelle di un normale essere umano, potrebbe essere la chiave per ricavare un vaccino all’infezione. Il film segue poi il tentativo da parte di una ricercatrice e di due militari, accompagnati dalla Justineau, di scortarla fino a un posto sicuro in cui poterla “operare” per ricavare la cura, al costo di ucciderla.

Le aspettative nei confronti del film cominciano però ad essere deluse circa dalla metà in poi: la regia all’esterno del bunker, salvo alcune meritevoli eccezioni, diventa sempre più scialba, soprattutto nelle scene d’azione, mentre le situazioni diventano sempre più ripetitive, e i buchi di sceneggiatura iniziano a moltiplicarsi, in particolare intorno alla morte di uno dei militari. Si perde rapidamente interesse anche nel rapporto, sempre più forzato a livello di scrittura, fra Melanie, alla ricerca di affetto umano, e l’insegnante, guidata da una compassione quasi morbosa che la fa entrare in conflitto con gli altri personaggi. Il film approda poi a un finale molto problematico e malgestito, soprattutto per le ultimissime inquadrature. Un vero peccato, considerando invece le tante belle trovate visive del film: l’ambientazione del bunker, gli zombie “funginei” capaci di correre a gran velocità, ma che quando sono sazi “dormono” rimanendo fermi in piedi come terrificanti spaventapasseri, la sequenza del loro attacco al bunker, la torre ricoperta dai funghi, la museruola della bambina, solo per citarne alcune. McCartyhy riprende inoltre il discorso iniziato e portato avanti da Romero, ovvero quello della progressiva “umanizzazione” degli zombie e “zombificazione” degli umani, cercando quindi di riportare il filone cinematografico degli zombie verso la sua originaria vocazione politica. Non sempre l’esito è dei migliori, basti pensare alla metafora di dubbio gusto costituita dalla morte a cui il militare di colore va incontro in un supermercato solo perché si distrae con delle riviste pornografiche, oppure il tono beceramente ecologista della risoluzione finale. Insomma, ci si trova davanti a un film di genere a cavallo tra horror e fantascienza distopica con un potenziale tanto incredibile, sia a livello formale che contenutistico, quanto sprecato da una regia incostante, e appesantito probabilmente da una ventina di minuti di troppo. Un’occasione mancata, e quindi più deludente di un film semplicemente brutto.

Tommaso Martelli

PS: Impossibile non notare il fatto che un film su una apocalisse zombie ambientato nel Regno Unito, presentato a un mese di distanza dal voto, sia in sostanza diventato un inconsapevole quanto paradigmatico film sulla Brexit.