THE GHOST OF PETER SELLERS (2018), di Peter Medak
Iniziamo a dire che questo è un (non) film su un altro (non) film, anche se ciò apparentemente non è molto facile da comprendere. Molto difficilmente vi capiterà di vedere questo The Ghost of Peter Sellers, presentato nelle indipendenti Giornate degli Autori dell’ottima 75ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma se mai vi capitasse questa premessa è assolutamente d’obbligo. Correva l’anno millenovecentosettantatrè, e un giovane regista ungherese stabilitosi in Inghilterra, di nome Peter Medak, era pronto per sfondare. Dopo due splendide black-comedy come A Day in the Death of Joe Egg (con Alan Bates) e The Ruling Class (con Peter O ‘Toole) era il momento di spingersi ancora più in alto, scritturando il più grande di quei tempi, ovvero Peter Sellers. L’attore non era sicuramente in uno dei suoi momenti migliori (anche dal punto di vista sentimentale, la depressione seguente la rottura con Liza Minelli) e perse subito interesse per il film, tanto da fare di tutto per sabotarlo (rivoltandosi contro la troupe, il cast, i finanziatori, chiunque in qualsiasi ruolo vi stesse prendendo parte). Ghost in the Noonday Sun, prodotto dalla Columbia e girato a Cipro (scritto anche con quell’altro geniaccio di Spike Milligan), vide comunque la luce, ma non fu riconosciuto dalla major e finì per non essere mai distribuito. Distrusse però, in un certo senso, tutta la carriera di Medak, tanto da diventarne uno spettro così angoscioso e ingombrante da venire ripreso a quasi mezzo secolo di distanza nelle sue tracce più recondite, nelle sue rimembranze più sbiadite. Nasce così questo film nel film, questo detour tenero e malinconico, sghembo e improbabile, attorno al fantasma di Sellers che si aggira ancora all’ombra di una pellicola comica e maledetta. Così anche questa deriva trova la sua dolcezza terribilmente malinconica, con un saggio che ci insegna a sopravvivere al nostro disastro e – soprattutto – al tempo che passa tanto da volerlo ritrovare.
Già il film era assai complesso di per sé, una specie di commedia di pirati piena di star (oltre a Sellers e l’amico Milligan anche Anthony Franciosa che il buon Peter finse di accoltellare sul set), con una sceneggiatura ben poco solida e raffazzonata, nemmeno letta dal protagonista. A peggiorare la situazione già surreale, una serie di disgrazie a dir poco improbabili: i produttori che scappano per un falso tradimento, la nave che affonda per colpa del capitano ubriaco, le indicibili peripezie del girare in mare aperto, un finto infarto dello stesso – già cardiopatico – Sellers con fuga del suddetto a Londra, l’arrivo di Milligan prima ben accetto e poi rifiutato come dissidente, i dissidi con Franciosa tanto da rendere impossibile filmare alcune scene con le due primedonne contemporaneamente, e infine una pubblicità tabagista da girare – per un pugno di sterline – nel mentre, con i due protagonisti che non potevano prender in mano un pacchetto di sigarette perché da tempo sponsorizzatori di campagne anti-fumo e con annessi ritardi cosmici. Questo è solo un piccolo resconto possibile di quei lunghi sessantasette giorni a Cipro, cosparsi di altri mille piccoli boicottaggi, gravi mancanze di rispetto e una troupe lasciata totalmente alla deriva. Il regista ungherese stesso avrebbe voluto più volte mollare quel set, ma lottò per non impazzire definitivamente cercando di rispettare gli accordi di partenza quando tutto ormai sembrava perduto. Nessuno si presentò alla festa di fine riprese e nessuno volle riconoscere quel film. La Columbia lo rifiutò perché incompleto di molte scene, mentre altri si offrirono per girare materiale aggiuntivo nel tentativo di salvare l’opera; ma, come spesso succede, non successe nulla di tutto questo – se proprio voleste vederlo è uscito come VHS in Nord America nel 1983 – e del film non rimane che la carcassa. I fantasmi così si associano, si duplicano ed evaporano come un sole riflesso dal mare a mezzogiorno. Una storia pazzesca, in parte ora riemersa; anche perché l’imbarcarsi in questa nuova avventura, del Peter regista, mostra il mancato superamento dell’altra, quella del Peter attore.
«Fare questo documentario è stato probabilmente il più folle esercizio della mia carriera. Nel senso che mi ha spinto a cercare nel profondo e a viaggiare nei ricordi della peggiore esperienza professionale di tutta la mia vita, mi ha costretto a rivivere tutti quei momenti camminando sulla mia stessa ombra per capire cosa accadde in quel film di quarantasei anni fa». Questo dice Medak oggi, e come non crederci? Questa specie di film, tra il documento e la finzione, tra il documentario e la cronaca, è un puzzle che si trasla continuamente tra le scene della vecchia pellicola rimaneggiata (a vederle qualcosa di stranissimo, surrealismo esotico e dissociato in salsa slapstick) e incontri dell’oggi (sopravvisuti a quella miserabile avventura, produttori, amici, conoscenti di Sellers e Milligan). Un percorso frastagliato e spesso sconnesso, che va ben oltre ciò che si vede e ciò che si pensa nel guardarlo (e forse anche nel girarlo). Da una parte emerge il genio anarchico e assoluto di Sellers che, anni dopo i misfatti, quasi dimenticò l’accaduto re-incontrando il regista per una chiacchierata, e dall’altra i produttori che solo ora ammettono colpe in una zona d’ombra in cui il cineasta magiaro fu lasciato solo. Ma il catalogo degli orrori di Medak è qualcosa che parla direttamente al cuore del cinema, della rappresentazione, dell’immagine.
The ghost of Peter Sellers è un film – sempre ammesso che di “film” un simile (non) film si possa trattare – che bypassa le intenzioni iniziali dell’autore per diventare riflessione profonda e disillusa sul mestiere del cinema, sullo stare davanti (o dietro) a una macchina da presa. È un oggetto misterioso, spesso anche tedioso e autoindulgente, che vive però di una sfavillante luce riflessa dalla fantasmaticità di presenze continuamente assenti e vacue, aleatorie e astratte. Si vive di simulacri e memoria, noi stessi lo siamo e così lo sono i ricordi di un’epoca che viene man mano a mancare, nello sgretolarsi di storie rimaste aggrappate a un film mai visto. Ecco che allora il disastro forse non è il film ma l’impossibilità, l’idea dell’irrisolto, il non finito che sfida anche la finitezza della vita stessa. Piange alla fine Medak, non tanto per il deragliamento della possibile carriera e non solo perché mai più potrà davvero chiarirsi con Sellers, bersi un’altra pinta con Milligan o rivedere quel film proprio come l’aveva sognato. Piange perché il tempo è passato mentre certe avventure mai torneranno ma mai moriranno, come un qualcosa che non ti abbandona ma al tempo stesso ti fa ancora sentire vivo. Piange perché fondamentalmente quell’esperienza totalmente folle di quel set è stata la più intensa della sua vita. Lo spazio del set è, in fondo, lo stesso in cui vivono fantasmi e vampiri, mostri e pirati, eroi e bastardi; il gran teatro del mondo in cui tutto davvero può succedere ed esistere solo nell’atto di esser filmato (e forse, proprio come ci dice questo gioiello, anche solo percepito). Piange Medak e dice stop, davanti alla cinepresa, regalandoci questa piccola ma inestimabile “videocosa”. Un altro modo per dire che cosa sia il cinema, o forse cosa non è.
Erik Negro