Sion Sono approda su Netflix. Se fosse stato annunciato anche solo 2 o 3 anni fa non ci avrebbe creduto nessuno, ma dopo la recente collaborazione con Amazon Prime per la serie Tokyo Vampire Hotel effettivamente ci si poteva aspettare di tutto – anche se, a questo punto, forse già il troneggiante logo di Universal prima dei titoli di testa di Tag era indizio di un vento di cambiamento. Ma Tag in qualche modo poteva avere un appeal da horror ‘weirdo’ che in questo periodo negli U.S.A. ha la sua efficacia da culto istantaneo e Tokyo Vampire Hotel, complice il formato da serie televisiva e i topoi del genere vampiresco (che già vari anime hanno avuto modo di declinare con toni eccessivi ed estetica nippocentrica, dai classici Vampire Hunter a Hellsing fino al più eccentrico Bakemonogatari con i suoi sequel e prequel), ha potuto avere un pubblico soddisfacente grazie ai servizi streaming. E Netflix è una piattaforma molto più vittima di gentrificazione, unificazione, scelte politiche. Perciò, The Forest of Love è, per certi versi, un mistero. Non ricordo di preciso chi lo scrisse in questi giorni di tempestive recensioni, ma un critico affermò che non è inusuale per il comitato di produzione di Netflix richiedere o perlomeno raccomandare, ai grandi autori, di dirigere come primo prodotto originale per la piattaforma streaming un film il più possibile ambizioso e omnicomprensivo, qualcosa che possa riassumere o richiamare il succo di tutta la filmografia precedente (v. Cuaron con Roma e presto Scorsese con l’attesissimo The Irishman). The Forest of Love non riesce certamente a essere un ‘unicum’ come può esserlo Roma né un momento epocale come speriamo sia The Irishman, ma in quell’ambito, ovviamente, usciremmo un po’ dai canoni, considerando l’aura da film-evento che circonda questi due film; e data la produttività stacanovista e ossessiva di Sono dal 2015 in poi, questo suo film d’approdo andrebbe forse più paragonato, nell’ambito “mainstream” statunitense, ai due film Netflix di Soderbergh, High Flying Bird e The Laundromat, eleganti commenti dello stato dell’audiovisivo mediante un senso del racconto separato, un’estetica che fa da commento e contraltare a un messaggio così reso più complesso e intrigante da veicolare, in quanto saldato nella realtà. The Forest of Love è sì un riassunto di molto del cinema di Sion Sono, invero, tra echi di Cold Fish e Why don’t you play in hell? specialmente, ma è più simile ai film di Soderbergh perché, nonostante ciò, è più un lavoro laterale, con uno stile che si ripropone in varie coniugazioni per ingaggiare un dialogo costante con lo spettatore. E inoltre è manierista e autoreferenziale al punto di non poter essere assolutamente un film-evento – o almeno non con la verve che hanno altri film di Sono che sono diventati celebri, su tutti certamente Love Exposure. È un po’ un’accusa, ma non troppo. Allo stile di Sono siamo ormai avvezzi, ci piace molto, ma soprattutto è incredibile come in qualche modo riesca sempre a stupire. The Forest of Love è uno dei pochi film su Netflix col bollino del divieto ai minori di 18 anni, e per quanto non superi le vette di cinismo e di splatter esistenziale di Cold Fish è riuscito comunque a stupire e disturbare una buona fetta di pubblico, nella quale includerei il sottoscritto.
È un’esperienza di visione punitiva e demente, con un cambio radicale dei toni impressionante quanto quello di Love Exposure, nonostante la durata più ristretta. Non che 2 ore e mezza siano poche: dalla pseudo-commedia surreale con sottotesto fantasmatico a una sorta di giallo grottesco dai toni sadomaso, fino, eventualmente, alla tragedia e alla poesia che ne consegue. La trama è complessissima e cercherò di essere breve e di non rivelare troppo. Innanzitutto, pare sia tratto da una storia vera, datata 2002, ci sono tuttavia vari flashback; e ovviamente il regista, oltre a esagerare i toni, si è preso molte libertà, anche se è difficile trovare informazioni specifiche sui fatti di cronaca reale. Nel tempo del film, ambientato a Tokyo e dintorni, si aggira un serial killer che ammazza giovani donne nei boschi con una pistola rubata a un poliziotto. In quei giorni, il giovane solitario Shin fa amicizia con due aspiranti cineasti esaltati. Scopertolo vergine, gli fanno conoscere Taeko, una loro amica, regista teatrale e nota per essere “facile”, ma lo rifiuta. Lei presenta Shin a Mitsuko, una sua amica, ma questa è ossessionata dall’amore per il fantasma di Eiko, un’amica dei tempi del liceo, con la quale aveva pianificato di interpretare una rivisitazione teatrale saffica di Romeo e Giulietta, in cui Mitsuko era Giulietta e Eiko era Romeo. Quella sera, un truffatore sociopatico chiamato Joe Murata, che si professa cantautore e sceneggiatore e di tutto e di più, comincia a fare avances a Mitsuko, e lei si innamora profondamente per la prima volta dal liceo, allontanandosi sempre di più dai genitori conservatori che la vogliono vedere sposarsi con “l’uomo giusto”. Shin e gli amici registi cominciano a seguire Murata e Mitsuko, prima filmandoli e poi pianificando di fare un film sulla figura carismatica e problematica di Murata. Le cose presto degenerano, rivelando il peggio di tutti i protagonisti. In particolare si ha l’impressione che, come aveva fatto un po’ sia in Cold Fish che in Himizu, Sion Sono qui stia tentando di raccontare la cultura e l’identità del popolo giapponese non più attraverso la lente della civiltà della vergogna (e dell’onore) che solitamente vi è applicata, ma imponendo, senza badare alla grazia del suo stile, una visione basata su una sorta di civiltà del dolore. La collettività è basata sul dolore e unita dal dolore. Si sopravvive meditando sul proprio dolore e non si fa altro che parlare e invitare al dolore. Di recente anche due film occidentali hanno raccontato un mondo con queste regole, Climax e Midsommar, ma se il primo propone esplicitamente che «la vita è un’impossibilità collettiva», il secondo dà una svolta malata al dilemma, dicendoci che la mostruosità del rituale scompare di fronte allo stravolgimento mentale e spirituale che ne può scaturire, e che quello può creare una possibilità collettiva. Certo, in entrambi questi film, è tutto mentale, mentre The Forest of Love è dannatamente fisico. Corpi macellati, sessioni di elettroshock, sindrome di Stoccolma, tortura e parricidio. Il fatto è che ogni malefatta rappresentata è solo un atto di autodistruzione. Il film è costruito inizialmente per far affezionare lo spettatore ai personaggi, poi per fargli perdonare le loro inettitudini e complessità, e infine, tra costanti cambiamenti del fulcro tematico, per metterlo faccia a faccia con una realtà ulteriore, di una violenza inaudita, in cui esistono solo la colpa, il dolore, la morte, e nessuno scappa. Nessuno, all’interno di quel circolo di persone. Il mondo di Murata e Shin implode sotto il peso dell’amore inequivocabile che tutti coloro che ne fanno parte provano per il dolore. Questa lente sembra rendere il mondo veramente brullo e insopportabile. Non è un mistero che Sion Sono ami raccontare l’odio e la misantropia – anche Love Exposure andava su questa scia. Ma non è tutto qui.
Bisogna dire che nella volgarità inequivocabile che impregna l’estetica e la caratterizzazione dell’intreccio sono riscontrabili qua e là varie grandi intuizioni registiche, dall’applicazione cartoonesca e di massa del primo piano frontale à la Ozu all’uso delle lenti distorte nella scena della masturbazione di Mitsuko, dall’angelico montage col Canone di Pachelbel ad alcuni richiami metacinematografici che hanno del geniale (in una delle ultime scene in cui Shin e gli altri girano il film, lo fanno usando le mani al posto della macchina da presa), ma è il finale di The Forest of Love a costituire una delle scene più belle che Sono abbia mai scritto e girato. Per quanto l’intento del film spesso appaia satirico, in particolare nella prima metà che punta pesantemente l’acceleratore sulla ridicolaggine insita nei suoi personaggi, si giunge alla parte finale del film emotivamente stremati. Qualcuno direbbe anche “irritati”, e sarebbe comprensibile: con Tokyo Vampire Hotel anche i più accaniti tra i fan hanno avuto un qualche rigetto, a causa di un nichilismo esasperato che ne oscurava la profondità politica, e qui si ripropongono ritmi simili, è arduo arrivare a un approccio realmente empatico anche all’inizio, il racconto è troppo fitto di contaminazioni di genere contraddittorie, ci si sente spaesati e assordati. Certo, si può dire che The Forest of Love riflette sul concetto che si ha di messinscena rispetto alla vita, continuando il discorso di Why don’t you play in hell? e Antiporno e affermando, qui, che ci sono determinate situazioni umane ed emotive in cui la realtà incrocia la finzione fino a oltrepassarla, fino al punto in cui il film c’è ma nessuno tiene la telecamera. E c’è solo il nostro di punto di vista, e non possiamo rimanere imparziali, di fronte a questo caos, a questa preghiera al dolore e al suicidio in cui più volte il senso di psicosi dilaga in maniera oltremodo perturbante. Viene detto che il mondo è un palcoscenico su cui inscenare una barzelletta epica, e la barzelletta epica si rivela una tragedia sulla perversione umana. Sembra davvero che non ci sia una fuga. È qui che giunge il finale. Non è un finale impossibile magico come quello di Love Exposure (o, di nuovo, Why don’t you play in hell?) quanto un’ideale messinscena di un ritorno alla pace di quel prologo fantasmatico. Non c’è redenzione, non c’è perdono, non c’è alcuna certezza. Ma ci sono degli spazi, vuoti e misteriosi, che inglobano le ultime pedine solitarie sopravvissute, le menti criminali più pericolose e inette di questo gruppo malato di persone, uomini tossici in un mondo di uomini predatori e donne prede che vogliono diventare predatori, e qualcosa dà loro la perdizione che si meritano. Poi arriva la didascalia con i fatti reali, e la perdizione diventa assurdamente ancor più astratta. È a suo modo un momento poetico, anche religioso, che si contrappone sia agli urli disperati di alcune scene precedenti, sia ai momenti più grotteschi (v. un personaggio che prima di tagliuzzare il cadavere del padre recita il “Nam myoho renge kyo” del Sutra del Loto). Un momento in cui una speranza immateriale, l’amore del titolo che da un certo punto in poi viene di rado nominato e ancor più di rado davvero contemplato, prende vita, e muove il destino, invece dell’odio e della distruzione che portano gli uomini.
È ormai chiara la visione dell’umanità che ha Sion Sono e la sua cattiveria può stancare, ma è impossibile per noi rinunciare all’aggiungere The Forest of Love al puzzle dei suoi film definitivi. È più imperfetto dei suoi migliori, è anzi quasi un’autoparodia (quando consapevole, quando no), ma conferma e ricrea dalle basi parte del suo modus operandi registico e narrativo, applicandolo a Netflix, con un coraggio artistico e visivo che null’altro sulla piattaforma probabilmente possiede, o quasi. Inoltre, la misantropia della visione del mondo dell’autore in questo film non è solo diminuita dal finale ma è anche di dubbia presentazione e interpretazione. Di chi sta parlando, Sono? Della cultura dello spettacolo giapponese, delle politiche conservatoriste di Shinzo Abe? Della decadenza giovanile, dei sadomasochisti? Di sé stesso, di come impone il suo ego e la sua visione del mondo mediante il cinema? Dei suoi genitori, della sua generazione disillusa? Il film è una satira, un mélo, un giallo? Tutto insieme contemporaneamente, un’identità sfaccettata fino a essere priva di fulcro. Ma anche se il fulcro non c’è, è palese la direzione ultima, la pagina da voltare oltre l’evidente cicatrice, l’apertura oltre il sipario. I fantasmi, le voci.
Nicola Settis