Appena dopo l’inizio di The Fire Within, in cui la voce narrante di Werner Herzog introduce Katia e Maurice Krafft, vulcanologi e cineamatori morti tentando di filmare l’eruzione del Monte Unzen in Giappone, si vede la prima serie di riprese legate ai loro viaggi. Non sono riprese loro (che giravano in 16mm), bensì riprese di loro, fatte su nastro in bassa qualità da altri, e mostrano gli ultimi momenti della coppia qualche ora prima che incontrassero la morte. I due prima osservano il vulcano dal punto prescelto dai media giapponesi, per poi sgattaiolare via quando si genera l’idea di avvicinarsi ulteriormente all’eruzione per filmarla meglio. Appena dopo, saltando (momentaneamente) il momento fatale con uno stacco, si entra nel mondo delle riprese dei due, e comincia nei fatti un film di riprese d’archivio in cui Herzog è il filo rosso di logica e montaggio tra le immagini catturate dai Krafft nel corso degli anni; ma prima che ciò cominci, tra le inquadrature che mostrano il vulcano Unzen, vediamo una serie di giornalisti giapponesi messi sul ciglio della strada, nel punto in cui i Krafft erano prima di salire, e Herzog commenta che anche chi era lì sarebbe morto a breve. Questo è il momento più agghiacciante e importante di The Fire Within, la messa in campo (e in coscienza, di autore e spettatore) della natura fantasmica del film: le eruzioni vulcaniche e i flussi piroclastici sono creazione e distruzione, meraviglia terrena, divina e aliena, e nelle riprese di Katia e Maurice vediamo persone morte, luoghi morti, l’energia vitale e la forza ancestrale della spinta distruttiva e mortifera delle energie naturali. Il tentativo herzoghiano non è una resurrezione, ma un tributo al fantasma, e allo spirito che ha portato i cineasti martiri al gesto cinematografico del ritratto del vulcano. Come è esplicitato nei primi minuti, The Fire Within non è un’estesa biografia (v. Fire of Love) ma un attestato all’eredità delle loro immagini, del loro immaginario, che dalla natura, dalla realtà, trae un sublime poetico fuori dalla nostra portata o dalla nostra immaginazione. Il commento del regista non è quasi mai scientifico, anche se sempre in ammirazione di quello di cui il nostro mondo è capace – è perlopiù un commento filmico e metafilmico, in cui ai Krafft si riferisce come a dei grandi cineasti, di cui segue il percorso con un fare da critico saggista.
Per esempio, se la maggior parte del film vive perlopiù nell’ammirazione delle immagini dei Krafft, gli inizi della loro carriera sono trattati con uno sguardo da insegnante di cinema; il regista dice che avrebbe voluto mettere loro fretta mentre rischiavano di morire in Indonesia e in Alaska, critica la loro finta recitazione in Islanda e il loro approccio da home movies all’isola di Vulcano, adora l’ingenuità di alcune loro trovate e ridicolizza con tenerezza il periodo in cui Maurice si vestiva come Jacques Cousteau. Ma si commuove nel vedere Katia far finta di essere colpita dall’acqua calda di un geyser, e nota come da un momento all’altro, all’improvviso, i coniugi siano riusciti a coniugare la loro passione in cinema; cinema inteso come atto avventuroso di testimonianza dell’impossibile, cinema inteso come Herzog stesso lo intendeva quando ha pensato La Soufriere, Fitzcarraldo, Apocalisse nel deserto, la parte nordcoreana di Into the Inferno (in cui già apparivano i Krafft). Sarebbero stati degli ottimi compagni di viaggio, in un’altra vita. E la sua voce narrante dice che è come se i Krafft non fossero riusciti a montare in tempo il loro grande film, sulla creazione in divenire; e quelli di The Fire Within (e precedentemente, con approccio più terreno, di Fire of Love) non sono che dei tentativi di mandare avanti la loro opera, in un estensivo epitaffio che diventa opera intimistica. A vedere le riprese dei Krafft alle Hawaii, non si può che condividere quel pensiero: immagini che sembrano oniriche, astratte, ma che corrispondono al centro della terra e dell’essenza del nostro mondo. La regia non è mai stata così tanto, per il regista bavarese, un lavoro di montaggio; e peraltro un montaggio romantico, umanista, in cui il consueto uso lirico di musica classica, minimalismo e cori folkloristici fa sovente da contrappunto intellettuale al contenuto delle riprese (senza la retorica dell’intensificazione e tradimento dell’immagine), dall’entrata della voce umana in sottofondo nel momento in cui, filmando la tragedia dell’eruzione del Nevado del Ruiz, i Krafft prendono la decisione di adottare uno sguardo e un approccio al mestiere più legati alla sensibilizzazione per le masse dei pericoli sui vulcani, a quando le canzoni de La Hija del Mariachi fanno da ironica cornice alle riprese ‘western’ filmate nei paesi limitrofi al Chichon nel Sud del Messico.
L’esteso commento a voce del regista spesso appare quasi invadente rispetto all’affascinante lascito dell’archivio dei Krafft, del quale permane un’impressione come di un coacervo di documentazioni estendibile all’infinito – al punto che alcune delle sezioni avrebbero probabilmente benissimo durare di più, e con meno commento. Ma ci si commuove a sentire la forza della clamorosa stima di Herzog verso i suoi colleghi, sentirlo declamare con affetto le lodi di persone che avrebbe voluto conoscere; la forza delle loro immagini diventa dunque la vampa di una nostalgia infinita, di un esistenzialismo che pone domande senza dare risposte, di un ‘fire within’. Un fuoco interiore che corrisponde a un’urgenza astratta e indefinibile verso la vita e la morte, la creazione e la distruzione, la materia e l’occhio meccanico con cui catturarla. Resta il fantasma incompiuto e universale del requiem, declinato dall’autore con una cadenza aneddotica, coma faceva con Bruce Chatwin in Nomad, dando alla vita la forma di viaggio e alla morte il mistero, l’immaginazione del fuori campo.
Nicola Settis