«Mi guadagno da vivere sognando»
Steven Spielberg
Che sia di tutti oppure personale inizia da sempre con un treno, il cinema. Con quella locomotiva pionieristicamente filmata dai Lumière nel suo arrivo alla stazione di La Ciotat, convenzionale nascita del cinematografo1 che secondo la leggenda tanti spettatori della prima proiezione mise in fuga terrorizzati, o magari con lo scontro fra i due convogli che si schiantano nel tragico incidente messo in scena nel 1952 da DeMille nel suo circense Il più grande spettacolo del mondo. Una vera e propria epifania per uno Steven Spielberg di appena sei anni che esattamente in quel momento, al suo primo ingresso in assoluto in una sala cinematografica, aveva in qualche modo già deciso che avrebbe fatto il regista, folgorato dall’universalità del linguaggio per immagini, dalle emozioni che possono suscitare, dal loro filo diretto con il sogno. Dalla loro ‘spettacolare’ capacità di esprimersi, raccontare e turbare bastando a loro stesse, senza necessariamente dover ricorrere alla parola e a volte nemmeno al sonoro, tanto che tutte le opere giovanili, poco importa se in Super8 o in 16mm, poco importa se filmate con una camera amatoriale, con una Bolex o con una Arriflex, sono rigorosamente mute. Immagini tanto potenti che spesso non serve nemmeno mostrarle in controcampo, basta e avanza restare su chi le guarda, sul riflesso della luce che dallo schermo fa brillare gli occhi lucidi, sulla pura meraviglia dello spettatore, sulla sua paura, sulla sua euforia, o magari sul suo senso di colpa. Eppure Spielberg non mette in scena la nascita di una cinefilia, nel suo nuovo e largamente autobiografico The Fabelmans, e forse nemmeno la nascita di un’autorialità. Semmai, nel giovane alter ego Sammy Fabelman, nella sua famiglia e nelle sue vicende così simili a quelle vissute in prima persona, il regista di Cincinnati innesta il bisogno di creare per tentare di capire se stessi, la capacità di ogni singolo fotogramma di vedere – e restituire in moviola, o nel buio di una stanza in cui sta ticchettando un proiettore – anche quello che all’occhio umano inevitabilmente sfugge, la costante ricerca di un orizzonte che sappia essere «interessante», preferibilmente spostato verso l’alto o verso il basso in plongée o controplongée, perché quando è centrale nel fotogramma, come gli dirà espressamente il John Ford incarnato da David Lynch, «is fucking boring». È per questo che il prozio Boris, nel breve e fondamentale cameo dall’ottantasettenne Judd Hirsch, non vuole parlare dei progetti cinematografici del pronipote, ma vuole vedere i suoi storyboard, le sue immagini, la sua visione. Quel codice con cui mostrare, esporre e magari riplasmare la realtà nella finzione, con cui emozionare chiunque guardi lo schermo, con cui comunicare direttamente, senza bisogno di intermediari linguistici, con il proprio pubblico. Basta un nonnulla per accenderlo. Basta una danza notturna in controluce nel campeggio, basta un salto in ralenti durante una partita di beach volley, basta uno spartito bucato da un tacco da cui avere l’intuizione di forare direttamente la pellicola per simulare la luce di uno sparo. Basta una serata al cinema a vedere L’uomo che uccise Liberty Valance, basta una moviola su cui passare le notti alla ricerca del giusto fotogramma, basta un trenino da filmare ancora e ancora nei suoi incidenti fino a veder sparire la paura, fino a rendersi conto di avere finalmente preso il controllo, fino a scoprirsi quasi per caso registi sempre più consapevoli.
Metacinematografico e onirico, un po’ romanzo di formazione, un po’ melodramma, un po’ divertita commedia e un po’ dolorosa tragedia, The Fabelmans cita e in qualche modo attraversa quasi tutti i generi, che poi è quello che ha sempre fatto il suo poliedrico autore, dai primi cortometraggi in Super8 realizzati da bambino coinvolgendo la famiglia e già esplorando l’horror, il western, l’avventura e la guerra, fino a una carriera lunga oltre mezzo secolo e più di trenta film di quasi ogni possibile tipologia. Del resto di Steven Spielberg, che torna per ovvi motivi a firmare anche una sceneggiatura di un suo film a più di vent’anni da AI – Intelligenza Artificiale, il film ripercorre anche parte della vita e delle tematiche ricorrenti nella filmografia, dal rapporto fra figli e genitori alla sofferenza per la loro separazione, dai primi esperimenti con la macchina da presa alle discriminazioni razziali che ha sempre raccontato di avere effettivamente subito dai bulli antisemiti al momento del suo trasferimento in California, dall’essere effettivamente figlio di un ingegnere e di una musicista (e quindi per diritto di nascita immerso nel conflitto fra arte e scienza) alle reali origini russe e ucraine della sua famiglia, con tanto di Kalinka cantata tutti insieme intorno al fuoco. Così come di Spielberg il film dichiara ancora una volta i modelli di riferimento, il suo considerare John Ford «il più grande regista di tutti i tempi», le più fondamentali scintille della sua formazione e le sue passioni più genuine. Ma sarebbe inutilmente tedioso mettersi a dissezionare il suo ultimo lavoro, presentato in anteprima a Roma in collaborazione fra Alice nella Città e la diciassettesima Festa del Cinema, cercando di capire quali dettagli siano effettivamente presi dalla sua biografia e quali siano semplicemente invenzione, racconto, magia. A partire dal cognome non certo casuale (pur con un piccolo chiasmo di lettere) scelto per l’alter ego, The Fabelmans è la storia di un cantastorie, di un creatore di fiabe in cui entrare, a cui voler credere, nelle quali dolcemente perdersi. Racconti dei quali tracciare un bilancio, in una sorta di summa dell’intera carriera che, fra diversi momenti altissimi che fanno facilmente perdonare qualche soluzione meno convincente (la scimmietta che la madre ormai sofferente porterà in casa, e più in generale qualche lungaggine sulla sua relazione extraconiugale) ragiona compiutamente sul potere del cinema, sulle sue potenzialità espressive e documentali, sul suo ben preciso ruolo nell’immaginazione collettiva. Ma anche sui suoi rovesci della medaglia, sulla sua capacità di unire ma anche e soprattutto di dividere: più ancora che una promozione sul lavoro, può bastare un dettaglio intrappolato dall’emulsione per creare una crepa insanabile, senza che nessuno ci possa fare nulla.
Fare arte, del resto, implica la possibilità di farsi (fare) male. Ma dall’arte non si può fuggire. Ci saranno sempre una macchina da presa e una moviola di cui non è possibile liberarsi, ci sarà sempre la necessità di una comunicazione per immagini nella quale non smettere mai di cercare l’incanto e lo stupore. A costo di rischiare di trovarci il più puro e inaspettato dolore, un po’ come quando il quindicenne Sammy si rende conto dell’instabilità della sua famiglia, chino di fronte alla moviola a vedere per la prima volta, nel moto perpetuo di un magnifico carrello circolare (non è certo una novità la perizia tecnica assoluta di Spielberg), quell’intesa eccessiva fra la madre e il socio e amico di sempre del padre mentre nell’altra stanza il padre guarda ignaro e innamoratissimo la madre che suona il pianoforte, o ancora come quando, poco dopo, il giovane protagonista per sputare il rospo con la genitrice le mostrerà nel chiuso dell’armadio la bobina incriminata, in un dialogo nel quale non serve nemmeno una parola. Bastano le immagini, basta il montaggio, e poi basta guardarsi da lontano con gli occhi gonfi di lacrime e di sensi di colpa. Eppure non perde mai la sua verve comica, The Fabelmans, forse lo Spielberg più divertente dai tempi di The Terminal. Con «le preghiere» insieme alla giovane compagna di college, primo fallimentare amore mai dimenticato, ossessionata dalla figura di Gesù e solo per questo attratta dal giovane ebreo. O ancora con gli amici in Arizona con i quali catturare scorpioni per comprare nuove bobine, con le unghie troppo lunghe da tagliare di forza alla madre il giorno prima di un’esibizione televisiva, con quel momento del ballo scolastico che abbraccia idealmente gli amici e i collaboratori di una vita, fra lo Zemeckis di Ritorno al futuro e il Lucas di American Graffiti. Anche perché in effetti sembra in qualche modo essere proprio American Graffiti il film più introiettato nell’ultimo periodo da un’intera generazione di conclamati autori che vedono sempre più candeline sulle rispettive torte, e che malinconici e sognanti ritornano più e meno (auto)biografici e più e meno metacinematografici ai periodi delle rispettive infanzie e giovinezze per riflettere sul (proprio) cinema, sui cambiamenti nella società, sul tempo che passa. Dal Quentin Tarantino di Once upon a time… in Hollywood al Paul Thomas Anderson di Licorice Pizza, dal James Gray di Armageddon Time fino a (per ora) questo Steven Spielberg di The Fabelmans. Passando per il Richard Linklater di Apollo 10 1/2, per una sorta di declinazione partenopea con il Paolo Sorrentino di È stata la mano di Dio, e volendo pure per il Martin Scorsese ‘leoniano’ di The Irishman, più distante nelle scansioni temporali e nettamente più “anziano” e cimiteriale, eppure a sua volta simmetrico nelle tutto sommato analoghe ambizioni. Tutti film profondamente differenti di autori diversissimi, beninteso, eppure per molti versi lo stesso film, lo stesso sguardo nello specchietto retrovisore, la stessa necessità di ripartire da ciò che è stato e ciò che non è stato, più o meno nei medesimi decenni e nei medesimi punti della formazione. Chi cambia la Storia per inseguirne una migliore pur consapevole che il cinema che tutto può sarà tragicamente destinato a rimanere confinato su uno schermo, chi lascia dolcemente innamorare due amici nella Silicon Valley dei Settanta, chi si ritrova i Trump a scuola e Reagan alla Casa Bianca, chi perde i genitori ma trova il talento fra le reti di Maradona e i consigli di Capuano, chi vive la propria parabola di ascesa e caduta criminale, chi sogna di vagare su e giù per l’ignoto Spazio profondo. Chi incontra Federico Fellini e chi incontra John Ford, prima su uno schermo e poi negli uffici di un teatro di posa. O forse no, forse non è mai successo: è “solo” la magia del cinema, la sua ipnosi, la sua continua e seducente narrazione. Il suo ennesimo trenino da filmare e rifilmare, così impazienti di vedere il rullo appena sviluppato che per proiettarlo va benissimo anche il palmo delle mani.
Marco Romagna