THE ETERNAL DAUGHTER (2022), di Joanna Hogg
Cosa significa essere “eternamente” figli? È vero che, nel percorso della vita, non si smette mai di maturare, di crescere, di aver bisogno di conoscere qualcosa di nuovo, da qualcuno che dia affetto come un genitore. Si è eternamente più piccoli di qualcos’altro o di qualcun altro. Però poi le generazioni continuano, il DNA si trasferisce, e le continue reiterazioni delle stesse informazioni genetiche creano una lunga concatenazione ripetitiva di individui, che si guardano un po’ da lontano e un po’ allo specchio. Questo è uno dei temi che affronta The Eternal Daughter di Joanna Hogg, in concorso al festival di Venezia (79esima edizione) e produzione A24, già per come nelle prime inquadrature presenta le sue protagoniste: una madre e una figlia interpretate entrambe da Tilda Swinton. Arrivano in un taxi dall’aura funebre, con la madre vestita come in una bara aperta a una veglia, occhi chiusi e pacifici, mentre un inquietante viale alberato si staglia per dar loro accesso a un albergo di cui sono le sole ospiti. In un’aura un po’ magica che gioca con l’horror senza mai approdarci, si staglia una storia di fantasmi, allegoria della mancanza e del lutto, dell’affettività. Con una serie di trovate sottili, la regista svela e disvela con alterni risultati il ruolo dell’assenza, dello spirito, rendendo in forma di funzione cinematografica un tentativo di catarsi, di accettazione, in mezzo a un vortice di solitudine. Alla fine questo è un “Souvenir Pt. 3” non-ufficiale, dopo i due più recenti lungometraggi autobiografici della Hogg, appunto The Souvenir (2019) e il brillante The Souvenir Pt. 2 (2022), la cui protagonista era interpretata dalla figlia di Tilda Swinton, Honor Byrne, e sua madre, naturalmente, da Tilda Swinton, che con la Hogg, amica di vecchia data, fece alcuni tra i suoi esordi negli anni ’80. In questi due film, seguiamo una studentessa di cinema alle prese con una complessa rete di relazioni interpersonali, tra un amore ingestibile e il bisogno irrespirabile di parlarne, col cinema, a tutti i costi. The Eternal Daughter è un sequel spirituale, raccontino di una figlia che vuole fare un film su sua madre, e nel raccontare i suoi sforzi per farlo e per capire che storia raccontare effettivamente, il risultato finisce per essere in modo trasparente il prodotto finale, il film che stiamo guardando. Il che non è niente di innovativo, ma già mostra la protagonista come un’eterna studente: un’eterna figlia, un’eterna presenza vicino a un’assenza.
In una villa vuota e infestata, dove non va internet e tutto appare sospeso nella notte, avvengono sparizioni, scambi di letto, il cibo diventa invisibile e la luna accecante. La fotografia ricorda il giallo all’italiana con sferzate di colore espressionistiche e psichedeliche. Quello che a volte sembra mancare è lo slancio, la grande trovata, una colonna portante che solidifichi la visione, perché The Eternal Daughter, nelle sue dimensioni esigue, è sempre eguale a sé stesso, non spicca il volo, gira attorno al medesimo punto per tutta la sua durata. La sua forza è nella sua cadenza, nell’illusione, depistaggio dopo depistaggio, che si sveli qualcos’altro – e invece, nell’unica vera caduta di stile della Hogg, si svela unicamente ciò che nel resto del film era suggerito solo con trovate visive. Ne emerge un immaginario solitario, ma che cerca (e forse trova) speranza nella realizzazione della creatività (l’atto del fare il film, con tutti i suoi espedienti) e nella compresenza di fantasmi che non sono solo manifestazione d’orrore. Con il sound design distorto e spettrale che caratterizza molte altre produzioni A24, sono valorizzate alcune trovate di contorno grottesche, come le apparse della receptionist o le intrusioni di fantasmi o sagome che tali sembrano, o ancora l’alternarsi incoerente di luce e buio, veglia e sonno, vita e morte, vero e falso. Il clima che si respira durante la visione è al limite della catatonia, ma all’interno dell’ambientazione sospesa in cui quasi tutta la storia ha luogo, si crea una luce, un senso, un’ulteriore catarsi, e avviene uno specchiarsi. Così, quel limbo minimale, che ha un che di cadaverico, diventa davvero vivo e vivido, nel suo piccolo.
Insomma, riassumendo, a catalizzare l’attenzione in The Eternal Daughter c’è poco, ma l’atmosfera suggestiva (e antitetica al film di genere) ha una sua singolarità, così come l’intima necessità della Hogg di dare vita, con pochi compromessi e mezzi ridotti rispetto ai film precedenti, a una sensibile ennesima breve autobiografia, un souvenir da portare a casa dal lavoro per dire: «c’ero, ci sono, ci sarò». E in questa dimensione anche il tempo del film, che scorre inesorabile e indifferente, da problematico ritorna affascinante; diventa un’impressione di realtà, eterna, fuori dalle mere e semplici logiche del sogno, della visione, dell’analessi, ma si crea e si trasforma fino a ottenere la sua specifica dimensione, priva di divenire, il cui fine ultimo è la costruzione del film stesso. Quando una vita si è conclusa, essa appartiene all’eternità – le missioni terrene vengono private di significato se non per chi è rimasto, Joanna, Tilda. E ciò che rimarrà sarà un film, questo, pieno di rimorsi. È amaro, da parte della Hogg, ma anche toccante, dato il mondo così fumoso, silenzioso, vago in cui la storia ha luogo. La regista non si autogiustifica mai, né nelle scelte di forma cinematografica né nelle scelte anche patetiche che compie il suo alter ego, nei tentativi di proteggere sé e/o la madre o nei momenti in cui perde totalmente la bussola della vita perché la madre non riesce a indicarle la direzione («non ho fame se tu non hai fame», dice Tilda-figlia a Tilda-madre nel ristorante dell’albergo). Il reame che si apre è dunque quello della memoria, e i ricordi personali si susseguono in una galleria frammentata di piccoli momenti, McGuffin inconcludenti, dialoghi che non sono mai accaduti, cellulari che registrano il silenzio, canzoni di “buon compleanno” cantate al vuoto, rivelazioni di traumi passati sconosciuti. Non manca il senso, anzi; è solo difficile accettare che un’opera, che per il percorso personale della filmografia della Hogg è così imprescindibile, sia riuscita perfettamente a realizzare il proprio scopo, senza mai tuttavia davvero trascendere, rischiare, creare uno scarto tra realtà e cinema abbastanza forte da davvero dare respiro a un mondo intenso in cui sprofondare con la regista e piangere con lei – come accadeva invece nei due Souvenir.
Film di corridoi, riflessi e nebbia, The Eternal Daughter rimane dunque colmo di suggestioni, nonostante i suoi limiti che possono creare difficoltà nell’immedesimazione e nell’empatia col dramma personale della regista.
Nicola Settis