THE END (2016), di Guillaume Nicloux
Quando un attore diventa una leggenda, non ha neanche più bisogno di recitare per risultare efficace e perfetto. Ne è pienamente consapevole il regista francese Guillaume Nicloux, che per il suo nuovo The End, presentato nella sezione Forum della Berlinale, si affida in tutto e per tutto all’imponente massa di Gérard Depardieu, lasciato semplicemente essere se stesso, una sorta di orso umano e triste che vaga per i boschi accompagnato dalla propria stanchezza, dalla propria sete e dalla propria mole. È un sodalizio ormai ben saldo, quello fra il regista-scrittore e l’attore già insieme in Valley of Love, che in questo nuovo lavoro si declina in una narrazione cucita interamente intorno al suo granitico personaggio, sin dalle primissime inquadrature che lo ritraggono disteso sul letto, l’enorme ventre all’aria e lo sguardo volutamente inespressivo, in attesa solo di rendersi conto di essere probabilmente già morto. The End, prima di tutto, è infatti un’allegoria della morte, un eterno vagare fantasmatico, un infinito perdersi circolare, metaforico e, quando necessario, lisergico. Quello messo in scena da Nicoloux è un mondo di spettri, nel quale Depardieu è un cacciatore solitario errante, incapace di ritrovare prima il suo cane e poi il sentiero, costretto a dormire due notti all’aperto senza cibo né acqua fra incontri surreali e una speranza che costantemente si assottiglia. L’estate francese diventa un circolo vizioso, un percorso apparentemente senza fine, l’assurdo che si insinua nella narrazione, la ribalta, la arrotola su se stessa come in una spirale che si stringe intorno alla gola e al corpo del protagonista.
The End è il cartello che appare prima ancora che Depardieu si inoltri nella foresta, una fine che in un certo senso nega l’inizio, indicando quanto possa essere inutile il nostro incedere e introducendo tutta l’ambiguità narrativa e introspettiva del quale il film si nutrirà, trovando una propria forza intrinseca negli occhi stanchi del cacciatore, nei suoi movimenti difficoltosi, nel suo cammino pesante. Nel vagare per i boschi di Depardieu c’è tutta l’erranza umana, nella sua mancanza di un percorso la nostra, nel suo eterno ritorno a quello stesso punto di riferimento il nostro smarrimento nei confronti della vita e della morte. Passano le ore, una notte, due giorni, il cane non si trova più, la barba si allunga, sparisce anche il fucile, la fame fa capolino devastante e stordente, il cacciatore ormai disarmato diventa preda del mondo, della natura, di se stesso. Poi Depardieu incontra un uomo, un altro fantasma nel suo eterno vagare, i suoi discorsi apparentemente insensati, la sua fuga senza aiutarlo. Ma forse è solo un altro demone interiore, un’altra tappa del viaggio in un purgatorio rurale, l’ennesima parentesi kafkiana di un rutilare stanco e senza meta, perché una meta raggiungibile sembra non esistere più. Si materializza una donna nuda, altra vittima, altra anima smarrita, altra mancanza, forse altro tradimento. O forse, più semplicemente, è solo una proiezione del desiderio, la necessità di aiutare qualcuno nel momento in cui siamo noi ad avere bisogno d’aiuto, l’ulteriore prova dell’inutilità del cammino, l’occasione per ritrovare un briciolo di speranza ma anche la sua perdita definitiva, fra sogno e realtà, alla ricerca costante di qualcosa di perduto che non si intravvede, che forse è già passato, che forse nemmeno esiste.
Lo stile filmico di Nicloux, cucito sui primi piani e sulla fisicità del protagonista, va dalla quasi muta contemplazione delle prime fasi fino ai lunghi e articolati pianisequenza che accompagnano il cammino di Depardieu nel bosco, con l’apice emotivo in un finale che ridà un senso a tutto il precedente surrealismo. Infatti la storia è destinata a ricominciare, con un cane in meno e una donna che non c’è più, ma il fucile di nuovo nelle mani, fino a quel boato sordo che risuona fra le frasche come una liberazione, o forse come l’impossibilità di trovare davvero la propria pace. The End non è un film geniale, non brilla né per originalità né per spunti, ma sa far emergere una coerenza di fondo fra le opere del regista che, in una Berlinale fatta di poche conferme, pochissime sorprese e sonore delusioni, non è certo un merito da poco. È un film piccolo, elegia della morte e delle anime in pena, basato su un Gérard Depardieu che non ha nemmeno più bisogno di recitare, tanta è la forza che sprigiona con il suo semplice stare in scena, con i suoi movimenti affannosi, con il suo sguardo vacuo. A volte, il cinema è solo fisicità, presenza, cuore. E di cuore, in questo film forse un po’ confusionario ma tutto sommato efficace nella propria ambiguità, ce n’è da vendere.
Marco Romagna