THE ELEPHANT MAN (1980), di David Lynch
Nel 1977, anno di Eraserhead, uscì anche Alta Tensione, uno dei film più sottovalutati del re della commedia americana Mel Brooks, parodia dei film di Alfred Hitchcock. Pochi forse sanno che Alta Tensione, oltre a essere appunto un film da rivalutare per il proprio tributo al maestro del terrore britannico, ha anche avuto il pregio di lanciare David Lynch a Hollywood: questo perché l’assistente alla regia del film di Brooks, Jonathan Sanger, fu tra i produttori che presero in mano lo script di The Elephant Man negli ultimi anni ’70. Brooks aiutò a finanziare il film diventandone produttore esecutivo e fu uno dei suoi assistenti e consigliare a Sanger e a lui il nome di David Lynch dopo aver visto Eraserhead in tutta la sua rivoluzionaria grandezza surrealista. Il regista di Frankenstein Junior (1974), estasiato dalla visione del film di debutto dell’autore di Missoula dopo una proiezione privata, decise dunque di chiamarlo per la direzione del film. Sanger e Lynch si incontrarono e discussero due progetti: da una parte un’operazione impersonale per Lynch, ovvero appunto The Elephant Man, fondato su uno script preesistente scritto da Christopher De Vore e Eric Bergren, basato su due diverse fonti, The Elephant Man and Other Reminiscences (1923) di Frederick Treves e The Elephant Man: A study in human dignity (1971) dell’antropologo Ashley Montagu; dall’altra, quello che sarebbe dovuto essere il secondo film di Lynch, una specie di sequel spirituale di Eraserhead intitolato Ronnie Rocket, scritto da lui stesso, una specie di noir metafisico con rockstar, nani capaci di manipolare l’elettricità e spaventosi treni che portano in altre dimensioni. Quest’ultimo film non è mai stato realizzato a causa di una perenne sfortuna di Lynch nel trovare fondi, dalla bancarotta della produzione De Laurentiis dopo il fiasco di Dune (1984) qualche anno dopo fino al collasso della Zoetrope di Francis Ford Coppola dopo l’incredibile e per noi forse ancora inspiegabile flop causato dal capolavoro Un sogno lungo un giorno (1982). Nonostante il regista non abbia ancora ufficialmente accantonato il progetto, molti dei suoi contenuti sono stati visti e rivisitati in alcuni dei suoi film e in particolare nella mitologia metafisica di Twin Peaks. The Elephant Man dunque finì per essere il secondo lungometraggio per Lynch, dopo una produzione che lo vide anche come assistente alla sceneggiatura, portando il film a ben 8 candidature agli Oscar, cosa che non sarebbe mai più successa per tutta la sua carriera. Mel Brooks chiese di togliere il suo nome dai titoli di testa per evitare che il pubblico credesse che il film andasse preso come una commedia, mentre John Hurt in un’intervista affermò che non intendeva avere a che fare nella propria vita con nessuno che non si sia commosso guardando il film. The Elephant Man può essere considerato inusuale e sentimentale, ma in sé sono nascosti molti riferimenti a temi cari a Lynch, e soprattutto, all’epoca, lo stile del regista di Eraserhead, nonostante una trama sicuramente più comprensibile e anzi adatta al pubblico commerciale statunitense, era riconoscibilissimo, sia per il bianco e nero, qui più curato grazie alla mano di Freddie Francis, che collaborò col regista nuovamente sia in Dune sia in Una storia vera (1999), sia per l’approccio estetico al corpo umano e alla deformità.
Per i pochi che non lo sapessero, il film tratta la storia vera di Joseph Merrick (che nel film è chiamato incorrettamente John), un uomo che visse meno di 30 anni nella seconda metà dell’800 a Londra e che fu oggetto di discussioni morali, mediche ed etiche nell’ambiente borghese e ospedaliero inglese a causa della deformità del proprio scheletro. Il dottor Frederick Treves, i cui scritti hanno ampiamente ispirato la sceneggiatura del film come scritto poc’anzi, lo salvò dalla apparentemente perenne condanna a essere un ‘freak’, un fenomeno da baraccone, una bestia da esibire in crudeli manifestazioni circensi. Jack Nance, precedentemente protagonista di Eraserhead e successivamente membro del cast di tutti i film di Lynch fino alla propria morte nel 1996, sarebbe dovuto essere il protagonista di The Elephant Man ma finì per non essere incluso nel cast. John Hurt tuttavia fu una scelta adeguata, non solo per il suo accento inglese, necessario per la costruzione storicamente convincente del personaggio, ma anche per la sua origine teatrale, perfetta per far trasparire un’emotività altrimenti fosse invisibile attraverso una maschera e un trucco di difficilissimo design che lasciavano poco spazio all’espressione e soffocavano parzialmente pure la voce. La verità forse è che la sceneggiatura di questo film in mani diverse da quelle di Lynch avrebbe avuto un sapore molto più retorico. L’idea stessa di base del film è quella di restituire umanità a un personaggio storico la cui in mostrificazione è l’unica ragione per la sua importanza nello scorrere degli eventi. Questa sorta di processo di umanizzazione del deforme sembra sicuramente mossa da intenti nobili, ma forse un approccio più banale sarebbe potuto risultare in una visione esploitativa della carnalità non dissimile da quella che rese famigerato e scandaloso il film di Tod Browning Freaks (1932), la cui grandezza è nascosta nel coraggio dell’operazione e nella manifestazione dell’orrore. È difficile probabilmente fraintendere davvero gli intenti del film, tra i quali il principale scopo pare essere quello di sconfiggere le barriere dell’odio generalizzato (e quindi forse anche del razzismo) in favore di una visione panteista e umanista della complessità umana. Una complessità che non esclude il Male, quello stesso Male che Lynch spesso raffigura attraverso simboli metafisici e allegorie freudiane e che qui è invece messo in scena attraverso la violenza insopportabile scaturita dall’ignoranza umana. The Elephant Man è un film elegante, forse non particolarmente complesso e stratificato ma denso nel suo perpetuo tentativo di portare l’inadeguatezza esistenziale dello stare al mondo verso un’ipotesi assoluta e cosmica che mischia in continuazione la favola con la scienza. L’incredibile fotografia in bianco e nero di Francis mette in risalto le ombre, le curve e le rughe, in un’ottica che ricorda la visione mostruosa degli antagonisti dell’Espressionismo tedesco, Nosferatu in primis. La demonizzazione del corpo da parte del cinema implica una visione parziale che l’autore tende a distruggere mano a mano che si entra nella profondità di Joseph Merrick, come seguendo passo per passo lo sguardo del dottore che lo segue in ogni dettaglio del suo processo di scoperta di sé. L’indipendenza psicologica e intellettuale del protagonista viene a mano a mano aumentando insieme alla capacità di visionare il suo corpo da parte dello spettatore, come abituandolo in continuazione all’idea di una sua resa umanizzante che ha il proprio culmine drammaturgico, dopo un crescendo di tensione a volte insopportabile, con l’indimenticabile urlo «Non sono un elefante! Non sono un animale! Sono un essere umano! Sono un uomo!». Al massimo del proprio interesse nei confronti dell’anatomia e di tutto ciò che riguarda il corporeo, Lynch vede l’apparente mostruosità di Merrick come un pretesto per comprendere a livello più viscerale l’interiorità dell’uomo a partire dai suoi traumi e dalle sue convinzioni più radicate nel profondo. Per la precisione, la cicatrice del protagonista che è al centro dell’intreccio, forse non nel comparto etico del film ma sicuramente nello scopo visuale ed estetico programmato dal regista, è il fatto che apparentemente per spiegare razionalmente la deformità di Merrick le persone attorno a lui gli raccontavano che sua madre quando era incinta era stata calpestata da degli elefanti: questo sconcertante e assurdo spezzone di realtà, che sembra rifarsi all’etimologia dell’incubo e della fiaba, ha portato Lynch alla costruzione di un’idea di maternità e genesi mistica, approfondendo la sua idea di nascita sotto la lente d’ingrandimento dell’approccio onirico (già sua ossessione nello spiritualismo buñueliano di Eraserhead) e portando a un incipit e a un excipit che duellano, attraverso gentilezze formali e astratte, con un’idea di cinema sostanzialmente poetica nel proprio impatto sensoriale ed emotivo devastante.
Lo sguardo di questa madre, minimizzata dalla crudeltà dell’uomo fino a essere semplicemente un fantasma fiabesco e non un essere umano, è riecheggiato sia nella prima sia nell’ultima inquadratura del film, come spronando il pubblico a comprendere un punto di vista che sia il più possibile lontano da quella stessa disumanizzazione che ha fatto tanto soffrire il Joseph Merrick reale. La favola degli elefanti è messa in scena come un vero e proprio incubo, sottolineato dal terrificante ralenti e dal tipico sound design lynchano che distorce le urla della madre. Da ciò però spunta un’origine immaginifica e fumosa, una potentissima immagine di un’esplosione tumorale e illuminante che sembra un po’ un collasso del concreto in favore di un qualcos’altro di indefinito – e il sospetto che questa immagine enigmatica in effetti stia a significare che quella è la vera e propria nascita del nostro ‘uomo elefante’ sembra essere confermato dalla lisergica, rosea e computerizzata versione di quella stessa inquadratura vista quest’anno all’inizio del terzo episodio di Twin Peaks: The Return, come simbolo della fuoriuscita di Dale Cooper dall’utero magnetico del bipolare mondo metafisico attraverso il quale deve passare per, appunto, rinascere. Lo sguardo poi si rivede perso tra le stelle, come lo sguardo di Alvin Straight in Una storia vera e come molti altri occhi nel cinema del regista; un immaginario assoluto fuori dalla realtà, che tenta di vivere ed esistere e soprattutto di resistere attraverso un nuovo tentativo di espansione verso altri lidi dell’immagine, che escludono la convenzione e il romanticismo tradizionale nel quale non può che essere relegato il mondo cinematografico che forse qualsiasi altro regista si troverebbe ad affrontare nel mettere in scena le stesse uguali identiche ossessioni dell’autore di Missoula. Sia chiaro, The Elephant Man, nel suo cambiare direzione rispetto allo stereotipato titolo-shock da B-movie cormaniano, non riscrive la storia del cinema e dell’immaginario del cinema americano e surrealista come fanno Velluto Blu (1986) in una direzione e INLAND EMPIRE (2006) in un’altra, ma compone un tassello così tecnicamente ed emotivamente impeccabile in un’idea di cinema americano senza compenetrazioni temporali definite né confini che è impossibile non considerarlo l’ennesimo capolavoro di un regista che forse non ha mai davvero fallito a raggiungere livelli espressivi di altezza inestimabile – e Dune è un discorso a parte. Alla fine, nonostante sia solo il secondo film di Lynch, qui si possono già vedere e sospettare molte delle sue idee di base: il bianco e nero come fondamento di un’intensità oscura che collima con le certezze umane; l’uomo come motore immaginario di interi mondi creativi sui quali è possibile ricamare microcosmi e macrocosmi in continuo conflitto sociopolitico e morale; e soprattutto il corpo come contenitore dell’anima e della mente, separato da esse, indipendente e non mistificabile (se non forse solo attraverso un approccio ultradimensionale che è quello riecheggiato sia nel mondo dei sogni sia nella manifestazione creativa continua e amniotica incitata dalla meditazione trascendentale). E, con ciò ben in testa, rimane un film imprescindibile, nell’innamoramento primitivo e maturissimo della bellezza umana e nel ripetersi dell’occhio come ossessione conclusiva, definitiva, che apre verso nuove riflessioni e nuovi sguardi complessificando il formato cinematografico e il formato di quella foto, così spenta e nel contempo intensa, o anche specchiandosi nel proprio volto, nelle proprie lacrime, nella propria imperfezione cristallina.
Nicola Settis