THE DUKE (2020), di Roger Michell

La commedia cinematografica, soprattutto quella cosiddetta “brillante”, sembra ora attraversare un inarrestabile declino. Sono infatti sempre meno i film che riescono in qualche modo a stimolarci intellettualmente e a offrirci quell’evasione, quel comic relief tipico del genere che l’attuale periodo storico richiederebbe sempre più. Le cosiddette commedie italiane in circolazione e le stesse produzioni americane d’oggi appaiono per lo più filmetti raffazzonati, approssimative sequenze di sketches, effetti e gags privi di alcun contenuto e di una autentica trama; si snodano a partire da banali pretesti narrativi di mero intrattenimento, intellettualmente vuoti, il cui fondamento non è mai il teatro, bensì il circo, il varietà. Il cinema inglese invece, forse per la sua matrice spesso teatrale, riesce tuttora a sorprenderci con commedie dal solido impianto drammatico, con trame ben costruite e impreziosite da una sofisticata comicità di parola propria di un certo tipo di teatro inglese figlio legittimo di Oscar Wilde. Arricchite da personaggi ben delineati e da ambientazioni curate, esteticamente impeccabili, sono opere ancora capaci di dispensare un piacere spirituale allo spettatore, come solo i vecchi film dei grandi maestri riuscivano a fare. È da tali illustri predecessori che The Duke trae la sua forza narrativa, attingendo non solo dalle commedie della Ealing, ma anche da quelle americane degli anni ’30, le cosiddette “screwball comedies” nate come reazione alla Grande Depressione. The Duke ne riprende i toni leggeri fatti di dialoghi arguti, incalzanti, e di personaggi eccentrici sul filo di un’innocua follia, la cui forza narrativa scaturisce dall’opposizione della coppia protagonista, un lui e una lei all’apparenza antitetici che, passando tra schermaglie verbali e rocambolesche vicende, finiscono per esaurire la tensione drammatica con l’innamorarsi o con il riconciliarsi alla fine della vicenda. The Duke è una commedia che conforta e diverte, alla stregua di quelle vecchie in bianco e nero con Cary Grant e Katharine Hepburn, ma allo stesso tempo offre uno sguardo disincantato, un po’ malinconico e forse per questo più vero, sul crepuscolo della vita di un uomo comune, sulle sue sconfitte, amarezze e fallimenti, nobilitandoli con ironia e compassione.

L’intento del regista Roger Michell, nel presentare The Duke fuori concorso alla 77 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è quello di narrare «una storia eccentrica, molto inglese» nei toni e nei contenuti. Deliziosa commedia di personaggi senili, The Duke associa il sagace humor britannico, tipico delle commedie alla Ealing, alla rappresentazione di una società fortemente ancorata alle proprie tradizioni, legata all’appartenenza di classe ma pur animata da un forte idealismo. Il film racconta una vicenda improbabile, tanto da essere vera, relativa al furto del ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya dalla National Gallery di Londra, avvenuto nel 1961 per mano di un sessantenne disoccupato infiammato dai valori socialisti e da un genuino spirito umanitario. Al centro dunque un personaggio che incarna in modo esemplare il tipo dell’inglese eccentrico, un cialtrone dai buoni sentimenti, un moderno Don Chisciotte dai tratti amorevoli e dalle molteplici ombre. Jim Broadbent porta egregiamente in scena Kempton Bunton, ex tassista disoccupato costantemente alla ricerca di un impiego che vive alle spalle della moglie e ruba carta igienica dai bagni pubblici, ma che, lungi dall’essere squallido e meschino, è in realtà un idealista dal cuore d’oro. Una rivisitazione in chiave socialista e certamente inglese di alcuni personaggi delle commedie di Frank Capra, da You Can’t Take It With You (1938) a Mr. Smith Goes to Washington (1939): spiantati sognatori, uomini comuni dagli stravaganti ideali che riescono a smuovere i potenti con la forza del loro sentimento. Il personaggio di Broadbent, aspirante drammaturgo che preferisce Céchov a Shakespeare per l’umile estrazione dei suoi protagonisti, cita Gandhi, passa le notti a leggere George Orwell e i giorni a battersi per l’abolizione del canone televisivo per i pensionati e i veterani di guerra, facendosi così portavoce dei vari malumori delle classi operaie inglesi nei confronti delle consolidate istituzioni. Dentro il suo logoro impermeabile, la frusta cartella di pelle alla mano, Kempton Bunton si sposta con passo incerto tra due mondi, i sobborghi in mattoni rossi dai comignoli fumanti e le eleganti gallerie d’arte della capitale, tentando, apparentemente invano, di creare un contatto tra due realtà tanto lontane, di formare un nuovo equilibrio. Michell descrive un’Inghilterra che si affaccia incerta agli anni ’60, ancora divisa tra staticità e progresso, tra la fine dei razionamenti e l’avvento dei Beatles: due mondi che collaborano con reciproco rispetto e orgoglio di classe nel mantenere quell’ordine costituito su cui si fondano i tradizionali valori inglesi. Ma The Duke va oltre, apre al nuovo, alla modernità, nella figura protagonista e nelle sue lotte per il bene comune. Un ritratto di una classe, di un’Inghilterra proletaria – quella del Nord, di quella Newcastle in cui negli ultimi anni e non per caso è “rinato” anche il miglior cinema di Ken Loach – che già negli anni ’60 tende a qualcosa di più e si batte contro quell’immobilismo tanto caro alla società inglese qui ben rappresentato dal personaggio di Helen Mirren, lavoratrice ligia al dovere, inflessibile nei confronti delle debolezze di un marito cialtrone e perditempo. La commedia gioca sugli opposti personificati dalla strana coppia delineata dal sardonico Broadbent e dalla ferrea ma giusta Helen Mirren, sui siparietti comici che le loro schermaglie verbali, sofisticate e a tratti irriverenti, creano. Dove lui fa disordine, lei ripulisce, in quell’estremo tentativo di mantenere l’ordine, quella dignità di classe così cara alla cultura inglese; dove lui scrive per elaborare il lutto e porre fine ai sensi di colpa legati alla morte della figlia, lei si chiude in un’apparente negazione, una sorta di rifiuto, creando quell’incomunicabilità che logora dall’interno il loro matrimonio. Al centro del film il dramma della morte della figlia adolescente, esplorato senza indulgenza o patetismo, toccato quasi da lontano con quella discrezione, quella reticenza propria degli inglesi nel trattare le vicende più intime e familiari, al contempo alleggerito da un umorismo tipico delle commedie anni ’90.

L’impeccabile sceneggiatura di Richard Bean e Clive Coleman, fra le battute serrate, mai eccessive, dà forma a un dramma sottile, una commedia quasi impalpabile di personaggi sfaccettati, mai solo positivi o solo negativi, bensì autentici in contraddizioni e debolezze che risaltano nelle interpretazioni misurate e reticenti, colme di silenzi eloquenti e di occhiate beffarde, dei bravissimi attori di scuola inglese. Ad affiancare gli indimenticabili Broadbent e Mirren spicca un cast d’eccezione tra cui Anna Maxwell Martin, già ammirata in The Bletchley Circle, Sian Clifford, star di Fleabag, la quale ci regala una breve quanto memorabile performance e, ovviamente, Matthew Goode nei panni di un brillante e sardonico giovane avvocato che ben rievoca il Charles Laughton di Witness for the Prosecution (1957) e il Jeremy Northam di The Winslow Boy (1999) di Mamet. Anche qui, nel piccolo capolavoro di Mamet, opera di chiara impronta teatrale a sua volta ispirata a une cause célèbre che aveva a suo tempo profondamente scosso l’opinione pubblica inglese, una difficile, donchisciottesca crociata sconvolgeva la vita agiata di una rispettabile famiglia dell’upper class londinese. Quella che appare come una causa persa, la battaglia del piccolo contro il grande, dell’uomo comune contro istituzioni intoccabili, «una cosa che», come afferma la domestica di casa Winslow (la bravissima Sarah Flind) «può accadere solo in Inghilterra», diviene in entrambi i casi una sfida irrinunciabile, una sentita lotta contro il sistema, un grido di protesta verso rigide strutture che alla fine viene quasi inspiegabilmente accolto. Portato in tribunale e accusato di furto, Kempton trova infine il suo palco e quel pubblico cui aveva invano sempre aspirato. Kempton Bunton conquista tutti con la sua autoironia, con i suoi umani difetti, anzi proprio con quelli, con quella sua mediocrità di uomo comune, per niente irreprensibile, nonché con la sua fede, «non in Dio, ma negli uomini», per lui tanti mattoni che «messi insieme possono costruire una casa, possono costruire Gerusalemme». Ed è questa sua fede nell’uomo, nelle sue più alte qualità, nell’umana solidarietà, a venire poi ricompensata non soltanto dal verdetto finale, ma dal ritrovare tutti lì: il figlio Jackie, l’altolocata padrona per cui lavora la moglie, e tra gli altri l’ex collega maltrattato di cui aveva a suo tempo preso le difese. Tutti seduti in galleria ad accogliere il suo messaggio, a sostenerlo, persino ad applaudirlo. Anch’essi tanti piccoli mattoncini, come quelli rossi delle case popolari inglesi che tutti insieme formano la sua, su a Newcastle.

Anna Chiari