THE DEVIL AND FATHER AMORTH (2017), di William Friedkin
Corsi e ricorsi. Quando William Friedkin girò L’Esorcista si parlava forse ancora di suggestioni, di un film di fantasia che nulla doveva direttamente al reale, perché il reale non lo cercava, non lo poneva come spazio d’esercizio, ma quasi come simbolo e pretesto di una narrazione dell’orrore. Il romanzo e la sceneggiatura erano di Bill Blatty, anche lui oscuro dalla pratica vera e propria del duello contro la possessione, come tutto il cast e la troupe. Poco meno di mezzo secolo dopo il destino, o forse la provvidenza, pone davanti all’autore la possibilità reale di assistere a un esorcismo, e questo in un certo senso ribalta anche le prospettive della sua opera più conosciuta. Siamo a Roma, nel 2016, poco tempo dopo che lo stesso Friedkin scoprì quanto Padre Gabriele Amorth, decano e luminare tra gli esorcisti, si fosse interessato alla sua opera. Dopo un primo incontro, ecco la rivelazione: il regista non solo potrà assistere all’esorcismo, ma può addirittura filmarlo, a patto di essere da solo e senza gli artifizi del set cinematografico. Sarà il filmato di quell’atto a strutturare il film stesso, lungo un crinale scosceso di rimandi, collegamenti e ricostruzioni. Solo partendo da quel 1972, e dalla domanda su un possibile realismo dell’esorcismo, si può affrontare oggi l’idea del guardare il male al lavoro. Così la casualità che ha portato Friedkin a riaprire una frattura del (proprio) passato, da anima vivente, diventa uno spazio di riflessione tecnica sulla possessione, un viaggio esplicativo nei fantasmi della mente, e allo stesso modo un momento fondamentale per cercare di vedere l’invisibile attraverso il cinema. Il cerchio che chiude il percorso nato con il primo grande horror moderno della storia del cinema diventa un altro horror in prima persona, come se Friedkin fosse consapevolmente un esploratore del male.
La protagonista del rito di Padre Amorth è Cristina, giovane e cattolica, socialmente inserita e fidanzata, che si trova qui al nono esorcismo. Di fianco a lei la famiglia, quasi astratta, anch’essa in trance, staccata, inerme (bisognosa di benedizione). Intorno a questo corpus di immagini inedito, montato da Friedkin in attesa di un climax giocando proprio con la perversione dello spettatore in attesa dello spettacolo come della catastrofe, nasce una dialettica profonda e scientifica attorno all’essere posseduti e alla trance, lasciando uno spazio enorme al non spiegabile. The Devil and Father Amorth, presentato fuori concorso a Venezia74 quasi a voler completare il discorso aperto lo scorso anno da Federica Di Giacomo con Liberami e quasi a voler dialogare con il sacerdote protagonista di First Reformed di Schrader, è un percorso fisico e teorico teso all’esercizio di comprensione di un fenomeno avviluppato in una diagnosi pressoché impossibile se non nella riconduzione allo sterminato gruppo delle possessioni, religiose e non solo, e quindi alla terapia ancora più oscura. Dopo che la scienza si è espressa, torna il sul set il Padre ex-partigiano, tra i pochi ad avere lo spessore spirituale per affrontare il demonio in continuazione, come in un duello dialettico e di Fede senza mai vincitori né vinti. I round saranno infiniti, per Cristina come per tutti gli altri, perché il mistero più grande rimane quello della mente umana, al di là di quanto Satana sia interessato a essa.
Fino a questo punto il film potrebbe essere un documentario tradizionale, quasi in formato televisivo, che analizza e indaga un’esperienza alquanto paranormale. Ma l’ultima macrosequenza, quella girata ad Alatri, sposta la direzione, e di molto. Dopo la morte di Amorth, Friedkin è deciso a rivedere Cristina. Hanno appuntamento, ma quando lui entra in chiesa (ammettendo sadicamente di non aver portato con se la camera), lei è in piena trance, e il suo ragazzo lo minaccia addirittura di morte. Realtà o finzione? Cinema, senza il minimo dubbio. Il mistero della sequenza che perde il rapporto visivo e percettivo con la verosimiglianza, mostra che la frattura tra ciò che si comprende e ciò che rimane oscuro è la stessa che si pone tra ciò che possiamo vedere e l’invisibile. In questo film le immagini fondamentali (soprattutto lo spazio che si pone tra il momento della possessione e la fine della trance) sono a noi negate, solo Amorth probabilmente le può vedere, o almeno è la sua Fede gli permette di vedere l’impossibile, la stessa che lo porta a combattere il male, quasi riuscisse anche a schernirlo. Allo spettatore spetta la curiosità, l’apertura contro gli scetticismi che ci impongono di non credere a qualcosa (la più grande o piccola che sia), il senso di ironia che può permettere la comprensione della possibilità di risolvere il male nel bene.
Montando la scena dell’esorcismo, Friedkin compie già un esorcismo, facendoci comprendere (dopo averla compresa lui stesso) l’attesa del dramma, il fenomeno d’espressione della malvagità assoluta, non potendo in alcun modo vedere la sua essenza metafisica, ma “solo” l’espressione fisica del suo esercizio. Nella scena finale della chiesa, allo stesso modo, Friedkin decide di non girare (?) per traslare l’espressione del fenomeno in una suggestione della paura, creando cinema nel momento in cui non ci permette di vedere. Proprio come nell’ultima inquadratura che ritrae lo stesso Friedkin sulla scala (controcampo ideale della Scala Santa in Laterano) de L’Esorcista, proprio come nella sequenza iniziale, proprio come se fondamentalmente tra la finzione e la realtà, in questo tentativo e processo estremo di normalizzazione, non ci fosse differenza alcuna. Nell’imminente apocalisse dell’immagine (e forse pure della società, a detta dello stesso autore), cosa resta del cinema se non il puro e indiscusso atto di Fede?
Erik Negro