Prima di tutto c’è la consueta profonda vena ironica di Jim Jarmusch, pronta a ribaltare in commedia gli stilemi del cinema horror. E poi c’è il metacinema che continua a entrare per citare, omaggiare, ridiscutere e svelare il dispositivo, c’è il ritorno del regista di Akron a un paesino sperduto e immaginario da meno di quattrocento abitanti con cui continuare a mappare le zone d’ombra degli Stati Uniti, c’è il capitalismo che ancora oggi continua a creare gli zombie – questa volta con una perforazione petrolifera che sposta l’asse terrestre e ne inverte i poli – e poi a negarne l’esistenza, c’è la serpeggiante questione razziale dell’America trumpiana volutamente racchiusa in uno stereotipo, derisa e fagocitata in un sol boccone, e c’è l’alienazione volontaria di una società materialista che non alza più gli occhi dallo smartphone e continuerà a cercare il wi-fi e lo Xanax anche nella non-morte. C’è la necessità linguistica dell’inaspettato e del sorprendente nel cinema di genere che gioca con le battute che da sempre si rincorrono sulla supposta natura aliena di Tilda Swinton, c’è l’effetto notte con cui girare di giorno la «scena madre», ci sono i fumetti e i film di Romero (ma non solo Romero, fra le citazioni più o meno esplicite dei vari Nosferatu, Il signore degli anelli, Kill Bill, Twin Peaks e Psycho) come fondamentale punto di partenza di personaggi che grazie al cinema sanno perfettamente sin dall’inizio dell’invasione con chi avranno a che fare e come ucciderli, c’è la (presunta) saggezza dell’eremita che non certo per caso nella sua bizzarra ma a suo modo poetica comunione con la natura sarà l’unico a salvarsi, e non manca nemmeno un’interessante suggestione biblica con il «cenere alla cenere, polvere alla polvere» della variante granulosa che viene sprigionata al posto del sangue dalla testa decapitata degli zombie. Procede per accumulo, The dead don’t die. Ipertrofico, ipertestuale, ostinatamente cinefilo, politicamente scorretto, provocatorio, straripante di trovate divertenti e di possibili spunti di interesse, eppure inaspettatamente incapace di andare oltre il mero gioc(hin)o. È questo, in massima sintesi, il problema del nuovo lavoro di Jim Jarmusch, presentato in pompa magna in apertura della 72ma edizione del Festival di Cannes accompagnato dalla parata di divi garantita dal suo cast stellare, da Adam Driver a Tilda Swinton, da Bill Murray a Chloë Sevigny, da Selena Gomez a Iggy Pop, da Steve Buscemi a Tom Waits.
«In a somewhat familiar town / That you saw once when you looked up from your phone / Nobody bothers saying hi / And you can save all your goodbyes / Stop trying to pretend that we’re all not at home / And the streets will look so empty in the morning / There’ll be no one out at night / For the lights to shine down on / But the dead will still be walking ‘round in this old world alone / After life is over / The afterlife goes on» canta sin dai titoli di testa, giungendo subito al punto, Sturgill Simpson nella sua The Dead don’t Die. Un brano che accompagnerà come un leit motiv tutto l’omonimo film, già annunciato per la prossima uscita italiana con il letterale – che detto così sembra un po’ un film di Maccio Capatonda – I morti non muoiono. Un brano che «suona familiare», all’interno della macchina della polizia, con Driver pronto dopo pochissimi minuti a sfondare la quarta parete per ricordare a Murray, e allo spettatore, che si tratta della stessa musica dei titoli. È un’intuizione che avrebbe potuto portare ovunque, e che invece rimarrà un sasso lanciato nel mare, prima di una serie di pennellate cinefile che entrano ed escono non per ragionare realmente sul mezzo, ma per accontentarsi di parlarne facendo ridere. Perché, sia ben chiaro, con The dead don’t die si ride e nemmeno poco. Rimarrà per lungo tempo nella mente lo zombie di Iggy Pop che esce dalla tomba dedicata non certo per caso a Samuel Fuller per andare alla mortale ricerca di caffé, così come rimarrà per lungo tempo nella mente quell’imperturbabilità surreale da sempre incarnata dal volto sornione di Bill Murray anche mentre esplode l’apocalisse zombie e non c’è più nulla da fare, oppure quella scritta «Keep America white again» che campeggia sul berrettino del fattore xenofobo interpretato da Steve Buscemi mentre non trova il suo cane, Rumsfeld. Ma sono tutti spunti, suggestioni e battute che iniziano e finiscono nel giro di un paio di sequenze, senza che si riesca a portare avanti un discorso che vada realmente al di sotto, o al di sopra, della superficie o della brillantezza estemporanea. Sono lampi, sprazzi, come la trovata di ingaggiare nuovamente Adam Driver per chiamarlo, dopo Paterson, agente Peterson, o quella di mettere in tasca proprio a lui, Kylo Ren, un portachiavi di Star Wars.
Sembrano lontani anni luce i tempi di Only lovers left alive, in cui Jarmusch era riuscito a rileggere il genere vampiresco rendendo i succhiasangue gentili depositari della cultura e della saggezza, mentre gli uomini procedevano come «zombie» nella loro ignoranza. Qui, dove gli zombie sono invece i “veri” non-morti romeriani, manca una reale metafora alla base e tutto si riduce a mero divertissement, a gag, a situazione assurda magari spassosa, ma in fin dei conti fine a se stessa. E sembrano lontani anche i tempi di Paterson, di cui questa Centreville, «A very nice place», sembra quasi una copia carbone più che un’evoluzione, una sorta di riciclo automanierista di Jarmusch. Non tanto come un “vorrei ma non posso”, ma come un “potrei ma non voglio”, dove la mano dell’autore, per quanto sinistra, è perfettamente riconoscibile nella scrittura, nell’ambiente e nella narrazione, ma sembrano mancare, ben oltre il film minore, le consuete ambizioni o detto ancora più prosaicamente l’avere qualcosa da dire al di là di un blando impegno ambientalista o di incipit di riflessione non portati avanti riguardo il cinema, il genere e le forme. In una rapsodia episodica di personaggi giocoforza non sempre a fuoco e situazioni giocoforza non sempre convincenti, fra la spada samurai della Swinton e i commenti non sempre illuminanti dell’eremita di Tom Waits, The dead don’t die accatasta poliziotti di provincia e bambini in sostanza segregati, giovani «nerd» in viaggio e gestori cinefili di pompe di benzina fornite di quasi ogni arma, improbabili becchini schermidori che truccano i cadaveri e massacri in giro per i bar e nei motel, orde di zombie intorno ai finestrini e spettacolari decapitazioni dalle auto in corsa, nonne da cui farsi fagocitare e trasformazioni da bloccare, inspiegabili comportamenti degli animali e bizzarri riflessi bluastri sulla luna, cd lanciati dal finestrino e brutti presentimenti riguardo il finale. E soprattutto, come già detto, accatasta meta-testi filmici che vanno dal vestito al gesto, dalla maglietta alla citazione nei dialoghi, dagli attori-feticcio al plasmare sulle loro precedenti filmografie il ruolo che interpretano. Ma anche il dialogo, in potenza illuminante, in cui i due protagonisti si ritrovano per l’ennesima volta a discorrere della sceneggiatura consegnata o meno loro «da Jim», perfettamente consci di essere in un film e della loro missione di attori che lo devono concludere, si rivelerà solo l’ennesimo giochino sterile prima di un finale scontato. Come un bruco destinato a non diventare mai farfalla. Peccato, perché non tutto è da buttare. Ma da Jim Jarmusch è lecito, anzi doveroso, aspettarsi molto di più.
Marco Romagna