THE DAY AFTER (2017), di Hong Sang-soo
Il cinema di Hong Sang-Soo appare sempre più come lavoro del/sul dispositivo, rimanendo umanissimo e necessario. Cambia sempre variabili, e nella sua proverbiale prolificità (questa volta torna addirittura al b/n dopo il lontano Virgin Stripped Bare by Her Bachelors e il ben più vicino The Day He Arrives), rimescola tutte le carte possibili delle relazioni e dei rapporti, giocando continuamente di riduzioni e sottrazioni in un percorso personalissimo tra i più affascinanti del decennio. In The day after, in competizione a Cannes 2017 dopo il fuori concorso di Claire’s Camera, ci sono un proprietario di una piccola casa editrice, una moglie gelosa e nevrotica, una ex segretaria/amante licenziata proprio a causa dell’insostenibilità della situazione, e una nuova e bella tirocinante. Mentre lui rimugina e soffre per la relazione appena finita, la moglie trova un bigliettino d’affetto che pensa destinato alla nuova assistente. Questo cortocircuito sarà il piccolo spazio di esercizio del film, che si struttura in una giornata e nelle possibili (e infinite) successive. The day after è ancora una volta una commedia degli equivoci, umana, minimale e malinconica, da interpretare attraversando i luoghi e le posizioni dei protagonisti, prestando attenzione a ogni piccolo movimento di macchina, ragionando su quanto siano labili l’amarsi e il potersi appartenere. Proprio attorno a un tavolo davanti a continue bevute (topos unico del cinema di Hong), in una scena di straordinaria intensità, si svelano i piani narrativi e saltano gli equilibri. Difficile pensare a cosa potrà rimanere di tutto ciò.
Questa selva di rapporti è qui, più che mai, descritta in maniera squisitamente comportamentista attraverso poche inquadrature che negano il montaggio dei campi e preferiscono lunghi piani sequenza su volti e labbra, anche con zoomate profonde e improvvise. Non sono quasi mai le parole a definire la loro condizione, ma come i personaggi agiscono di fronte a quelle, come le pronunciano e come le assorbono. Rendono conto al tempo, in un cinema che sempre più cerca di riprodurre il flusso del reale, colpendo immediatamente la nostra immaginazione confinata in uno spazio onirico ed astratto. Lo stesso spazio destinato a queste quattro figure nutrite da un sentimento di realtà così sfuggente e relativo, a cui cercano di appartenere. Quasi come se The day after, in fondo, non fosse altro che una (sempre identica, sempre nuova) favola nata dall’esperienza che essa trascende, un altro capitolo di un enorme romanzo sul perdersi e sul ritrovarsi, forse per perdersi ancora. Lui, lei, l’altra e l’altra ancora: sono solo loro ad abitare il reale della (loro) storia, e quando muovono all’esterno percorrono spazi completamente vuoti e afoni, in cui si ha la percezione che la quinta del reale aspetti solo la loro vorticosa recita d’affetti.
Ma è il tempo a mancar(gli). Lo stesso loro spaesamento siamo noi a provarlo quando la durata si distrugge, quando il giorno dopo, The day after, allo stesso incontro le anime giocano su versanti opposti, e nemmeno c’è memoria. Lo struggimento percettivo di questa riproducibilità narrativa ne ampia al massimo il suo fascino: nell’apparenza di leggerezza e lievità di questa storia, è la malinconia che inevitabilmente avrà la meglio, l’ossessione del momento già calcificato che non ci concede più di riconoscerci. E proprio nella recita sdoppiata della presentazione tra lui e la nuova stagista (una sempre splendida Kim Min-hee) siamo noi a smarrirci, è lo spettatore che per un attimo perde lo spazio di quella durata, fino a riannodare il seme stesso della narrazione. Ma proprio in quello spazio di apparente perdita allegorica dei sensi della (propria) percezione del film vive il cinema di Hong, così semplice nella sua continua riproduzione modulare eppure così profondo e stratificato, perennemente autobiografico e soggettivo, e allo stesso tempo perennemente privo di riferimenti e oggettivo. Quasi come se ogni eterno ritorno fosse l’ennesimo tassello di un’enorme opera sul nostro conoscerci attraverso l’appartenenza a ogni minuscolo frammento di emozione, cercando nella nostra realtà intima ed inconscia una possibilità rappresentabile nella vita.
Erik Negro