THE DARK AND THE WICKED (2020), di Bryan Bertino
Il Diavolo «non è là fuori, è già qui». E poco conta essere atei, poco conta non aver mai creduto, perché «al lupo nella foresta non interessa che tu creda che sia un lupo». Attaccherà in ogni caso, brutale, spietato, feroce. Tanto più se si tratta di un Male purissimo e inafferrabile, privo di una forma definita eppure dalle mille forme, pronto a manifestarsi in ogni corpo e in ogni angolo della casa trascinando l’intera famiglia dal capezzale dal padre morente a una spirale allucinata di panico e oscure visioni. Un Male fatto di cigolii e di gelidi spifferi, di progressive instabilità e di crescente inquietudini, di animali trovati massacrati e di insetti che stendono il filo fra la vita e la morte, trascinando quel poco che è rimasto dei legami affettivi in un vortice esponenziale di terrore e disperazione. Un Male che è l’angoscia di chi sta perdendo un affetto e nulla può contro l’ineluttabilità del destino, costretto a convivere con il dolore, con tutti i momenti di ambiguità, con lo scoramento e con la pre-mancanza dell’assistenza a un malato terminale, e consapevole di come ormai sia troppo tardi per poter alleviare i rimpianti e i sensi di colpa per tutti i non detti e i non fatti di chissà quanti anni.
Ma non è la profondità della metafora ciò che realmente interessa a The dark and the wicked, quarto lungometraggio di Bryan Bertino presentato nelle neonate Stanze di Rol del 38mo (e ci si augura unico online) Torino Film Festival, e in realtà nemmeno più di tanto l’aspetto puramente narrativo. Anzi, nel triangolo “familiare” corpo-casa-morte messo in scena dal 43enne regista texano non mancano soluzioni di una grana fin troppo grossa, fra il colpo di scena “facile” ai limiti dello scolastico di una telefonata a Chicago che disvela la natura allucinatoria del prete e le tutto sommato limitate stratificazioni di un pessimismo cosmico che nega ogni speranza di salvezza dal Male e dai sensi di colpa per i rapporti affettivi irrisolti, fra i tanti oggetti e manichini che rinunciano a incarnare un qualche significato che vada al di là della pura estetica orrorifica e la perplessità che lascia quel personaggio dell’infermiera tuttofare, un po’ saggia filosofa e un po’ ancor meno lucida dei parenti nel sottovalutare il loro avanzare verso la progressiva (auto)distruzione, che di fatto toglie ai protagonisti sia i momenti di riflessione sia la reale necessità di restare ad accudire il malato. In questo senso, pensare all’evidente (ed evidentemente sbilanciato in favore dell’altro) apparentamento di The dark and the wicked con il recentissimo e straordinario Relic dell’australiana Natalie Erika James non giova all’opera di Bertino, che nemmeno prova ad avvicinarne la complessità esistenziale ed emotiva. Eppure, in qualche modo, è proprio nel suo partire da premesse simili da quelle di Relic e arrivare ad analoghe conclusioni passando per direzioni cinematografiche totalmente differenti che sta il principale merito di The dark and the wicked. Perché non è il cosa, ciò che realmente conta, ma il come che emerge dal confronto, dalle opposte scelte, dall’approccio al genere, dall’utilizzo del dispositivo e dei suoi linguaggi.
A quasi parità di casa e di affetti, di vicinanza e di lutto, di legami e di distacchi, e al di là del passaggio dal dissolversi della ragione di Relic alla spiritualità re-indotta dal terrore di The dark and the wicked, laddove il film della James puntava tutto sulla suspense e su una crescente angoscia che avvinghia la gola e il cuore senza avere mai bisogno di far saltare sulla sedia, il punto di Bertino è esattamente all’opposto sfruttare tutte le possibili possibilità espressive per fare ripetutamente paura, dosando con intelligenza le attese e i jumpscare, le carrellate e i movimenti a schiaffo, le ombre e le apparizioni, i rumori e il senso del tatto, gli oggetti che vibrano e un corpo di apparente carne dietro le tende. Un ben preciso lavoro teorico, ancor prima che tecnico, che terrorizzando in continuazione lo spettatore rinnova ancora una volta il genere ripartendo dagli stilemi più classici dell’horror rurale per reinterpretarne e riscriverne personalmente le forme e le regole. Con una fotografia notturna di tagli, oscurità e silhouette in cui la (fioca) illuminazione è quasi sempre alle spalle delle figure umane, con un sapiente uso degli scavalcamenti di campo e di movimenti di macchina che fanno strada sui sentieri del panico, con un sonoro che costantemente si carica di tensione, trasformando ogni sibilo in pura angoscia. Senza mai nulla di gratuito, ma con ogni inquietudine e ogni spavento perfettamente funzionali all’evoluzione del plot o al degradarsi fisico e psicologico dei protagonisti. Persino una macchia sotto il tappo del lavandino può diventare brivido d’orrore. Persino una luce che si accende, persino una porta che si apre, persino il beccheggio di uno scacciaspiriti. Persino farsi una doccia, o magari anche fuggire e tornare a casa, perché una volta colpiti dalla forca del Diavolo non è così semplice divincolarsi dalla sua presa e dalle sue continue trappole, rimane solo la tragedia.
«Andate via», aveva detto del resto sin da subito la madre al figlio e alla figlia, tornati nelle sterminate campagne isolate della casa di famiglia per assistere il padre ormai immobilizzato a letto. Apparentemente la punta dell’iceberg di un rapporto glaciale, e invece, paradossalmente, il più disperato tentativo di proteggerli, l’unico reale e disinteressato atto d’amore senza abitudini o rimorsi da tentare invano di espiare. Una madre che si sentiva «già morta», come le pagine del suo diario sapranno rivelare, già consapevole e arresa all’evidenza dell’ingresso del maligno nella sua vita e nella sua casa. Sono ancora una volta quelle fattorie deserte di Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi, filtrate attraverso le riletture contemporanee di (non solo) M. Night Shyamalan e Ari Aster, eppure anche una trama semplicissima riesce a trovare la sua imprevedibilità e il suo fascino nel continuo e sempre differente manifestarsi del terrore, delle allucinazioni, degli shock, del progressivo avvicinarsi della morte. Giorno dopo giorno, in una scansione che strizza l’occhio all’isolamento di Shining e puntella la narrazione di sempre nuove inquietudini. Fra l’amore per il padre ancora da assistere e il mero senso di sopravvivenza come reazione alla crescente paura, fra il ritrovamento del corpo della madre automutilata e poi impiccata nel fienile e il suo impossibile ripresentarsi allucinato fuori dalla finestra, fra gli occhi girati e i voli sul soffitto di chi sta invece immobilizzato a letto e il doloroso ritrovamento delle carcasse scempiate degli animali da bruciare, fra la minacciosa apparizione di chi è a migliaia di chilometri di distanza e i dialoghi bisbigliati con «qualcun altro come se fosse sul letto». Fino all’ultima allucinazione prima del suicidio, con quella famiglia che rientrerà viva e vegeta giusto in tempo per urlare disperata nel sangue che zampilla. È un film sulla morte, The dark and the wicked, sulla difficoltà del distacco, sull’orrore nel non riuscire a evitare la marcescenza dei rapporti umani mentre chi si ama se ne sta andando e nemmeno se ne rende conto, e con la sua sofferenza è ormai diventato la porta attraverso cui il Male può passare da un mondo all’altro. È un film di visioni e rumori, di oggetti e chiaroscuri. Un film così sanamente ateo da rimettere in discussione e più volte lasciar vacillare il proprio ateismo, perché è solo attraverso la dialettica che si raggiunge la ragione. E poco importa, a un certo punto, se Bryan Bertino avrebbe potenzialmente potuto dire molto di più sui sentimenti, sulla famiglia o sulla religione. Il suo lavoro si innesta perfettamente nel genere, e all’interno del genere il proprio lavoro lo fa eccome, con intelligenza, con cinefilia, con una straordinaria conoscenza del mezzo. Fra una scarica di sano terrore e un’ancor più profonda inquietudine che tarda ad allentarsi, seducendo, suggestionando e plasmando le emozioni. La potenza di quel “diavolo” che è il cinema…
Marco Romagna