THE DANISH GIRL (2015) di Tom Hooper

Il Transgender spiegato a mia figlia

In un Concorso sinora non certo esaltante,  può accadere anche che un oggetto filmico tutto sommato anonimo come The Danish Girl possa arrivare al Lido con la forza rinvigorente di una boccata di ossigeno. La nuova fatica del regista statunitense Tom Hooper, noto principalmente per Il Discorso del Re (ma preferiamo senza dubbio ricordarne il ben più riuscito Il Maledetto United), è un biopic basato sulla metamorfosi del pittore Einar Wegener in Lili Elbe, il primo transessuale ufficialmente riconosciuto, operato negli anni Venti.

Attraverso l’interpretazione di un camaleontico ma in definitiva sopravvalutato Eddie Redmayne, credibile in entrambi i sessi ma proteso ad un costante overacting che lo rende a tratti quasi macchiettistico (al pari dell’Hawking troppo smaccatamente handicappato in quel La Regola del Tutto che ha portato nelle mani del giovane attore, ora candidato alla Coppa Volpi, un Oscar piuttosto discutibile), il film cerca di sensibilizzare sulla tematica transgender, con l’indiscutibile merito di farlo in un prodotto destinato ad un pubblico di massa. Dagli scompensi interiori ad una vera e propria seconda personalità che emerge progressivamente, il doppio personaggio interpretato da Redmayne inizia travestirsi quasi per gioco, posando per la moglie pittrice in luogo di un’amica ballerina, scoprendo ben presto il proprio agio in abiti femminili. Attraverso il graduale disvelamento di una personalità presente da sempre, ma fino a quel momento repressa per convenzione sociale, Lili avrà la meglio su Einar uccidendo -o più letteralmente rimuovendo- la propria parte maschile, attraverso un’arte chirurgica ancora troppo rudimentale per essere sicura.

Non mancano sequenze fortemente espressive e di inaspettata tensione emotiva, con Redmayne davanti allo specchio intento in una sorta di omaggio al Silenzio degli Innocenti. Ma se nel celeberrimo thriller di Demme la sparizione dell’organo maschile in mezzo alle cosce voleva simboleggiare l’inquietudine e la follia del male, in The Danish Girl la prospettiva del medesimo gesto risulta totalmente ribaltata, proponendosi come lo sconquasso interiore di chi si ritrova prigioniero in un corpo non proprio, schiavo della propria nascita, condannato ad una vita come personaggio, in luogo della persona, sballottato in un mondo ostile. Oppure, nella sequenza del peep show, Redmayne imita i gesti sensuali della ballerina in topless. Non c’è tensione morbosa, ma piuttosto un effetto catartico, istante di dolcezza che si insinua inaspettata sullo schermo.

The Danish Girl è senza dubbio Lili, eroina fragile in lotta contro la società degli anni Venti, non ancora pronta per capire la necessità ancestrale dietro ad un cambiamento di sesso. Ma è splendida ragazza danese anche personaggio della moglie, interpretato da una Alicia Vikander in stato di grazia, capace per lunghi tratti di oscurare il protagonista Redmayne. Mossa da un amore folle e incondizionato, capisce e asseconda il marito, sostenendolo fino all’ultimo pur conscia di perderlo per sempre. È sempre stata lei a prendere l’iniziativa, ci viene raccontato, e anche nel corso del film è lei che tiene spesso le fila. La sua forza d’animo ed i suoi pianti, la sua tenacia e la sua estrema dignità sono forse fra i migliori pregi di The Danish Girl, rivelandosi come primi e doverosi esempi di una condizione femminile, dopo la Grande Guerra, finalmente indipendente e paritaria. In un quello che rimane un film-compitino che, seppur rispettoso, ben confezionato e delicato, non riesce ad entrare davvero nel cuore, privo di sufficienti profondità e poetica per farlo, trovano quasi inaspettatamente posto una qualche ambizione, seppur non illuminante, una coerenza di fondo ed un’efficace tenuta narrativa.

Piuttosto, i limiti del lungometraggio sono in realtà reperibili in buona parte del cinema a stelle e strisce: per quanto girato in Europa, fra Copenaghen, Parigi e Dresda, la produzione Universal e la lingua inglese ne fanno un film pienamente hollywoodiano e di cassetta, pronto a cadere, al pari di molti suoi simili, in una forma troppo tradizionale, a tratti ingessata, e in una poetica in definitiva fredda, che non di rado degrada nei dialoghi in una retorica sempliciotta da romanzo rosa. Si scivola nella ridondanza di una carrellata di medici -esempio di una sanità retrograda e bigotta- che considera l’omosessualità una malattia e Einar-Lili un pazzo, sottoponendolo a radiazioni ai testicoli e cure per la schizofrenia, o nell’infedeltà della ricostruzione di un’Europa anni Venti -medici a parte- incredibilmente aperta, tollerante e acculturata, dove tutti parlano inglese a parte due brutti ceffi, non a caso maghrebini, pronti a pestare Einar solo perché effeminato. Ma forse il problema principale di The Danish Girl è il limitarsi ad un rigore ai limiti del monastico nell’adesione all’assioma della doppia personalità, già filo conduttore di Glen Or Glenda di Ed Wood. Avendo per le mani un tema spinoso ma potenzialmente infinito, Hooper sceglie di approfondirne un solo aspetto, rivelandosi incapace di trovare spunti sinceramente originali. Di fronte alla porzione LGBT nel microcosmo mostratoci in questa Mostra dal capitale Wiseman di In Jackson Heights, The Danish Girl si mostra in questo senso impietoso in tutta la propria evanescenza.

In conclusione, quello di Hoooper è un film che intrattiene ma non riesce a soddisfare appieno, troppo attento alla confezione ma superficiale nei contenuti per attecchire fino in fondo. Ma è anche un film che, in maniera molto più convincente rispetto alla retorica del solito ‘hollywodiano impegnato’, si dimostra saldo e tutto sommato funzionale, e riesce a non cadere nel patetismo gratuito. Configurandosi in definitiva come un film, al netto dell’inutilità autoriale di fondo, tutto sommato da difendere: incapace di dire qualcosa di davvero originale o di aprire squarci filosofici sul mondo transgender, ma al contempo prodotto ben al di sopra della media per passare un paio d’ore al cinema. Anche se si dovesse finire per dimenticarlo rapidamente. E poi, a volerci confermare inguaribili sognatori, a lungo raggio una qualche utilità questo film potrebbe anche averla: vengono in mente le ondate di omofobia e razzismo che ancora oggi serpeggiano per l’Italia, ma si ritrovano in tutta Europa, a quasi un secolo di distanza dalla vicenda di Lili. Tornano alla memoria i recenti pestaggi di Roma, le squadracce ucraine, le ronde padane, gli sproloqui dilaganti sulla ‘famiglia’ e l’ascesa di Alba Dorata. Ecco, The Danish Girl, destinato al grandissimo pubblico, sicuramente non sarà sufficiente per fermare queste derive, ma potrebbe forse aiutare almeno qualcuno a capirne l’idiozia di fondo, e a prenderne le distanze. O, almeno, ci piace sperarlo

Marco Romagna