THE CONSTITUTION – DUE INSOLITE STORIE D’AMORE (2016), di Rajko Grlić
«Ogni invito e incitamento alla guerra o all’uso della violenza, all’odio nazionale, razziale o religioso e qualsiasi forma di intolleranza sono vietate e punibili». Recita così, come imperituro invito alla conciliazione e al rispetto dell’individuo e dei popoli, il trentanovesimo articolo della Costituzione croata, probabilmente quello più calpestato da una popolazione che, a vent’anni dall’ultimo conflitto, non ha ancora smesso di essere xenofoba, intollerante e sessuofoba. Anche a costo di andare contro i minimi principi di umanità, contro qualsiasi forma di apertura, magari perfino, consapevolmente e dolorosamente, contro se stessi. In un momento storico nel quale non solo nei Balcani ma in tutta Europa e in giro per il mondo lo spettro del ritorno dei fascismi è ben più che un vento lontano, l’ultima fatica dell’esperto Rajko Grlić The Constitution – Due insolite storie d’amore porta sullo schermo la pura attualità, l’odio contraddittorio che avviluppa la società, e al contempo la complessità di questo odio, le sue molteplici matrici e declinazioni, perché contro il nazionalismo – sorta di pepe lanciato in faccia al popolo per fargli starnutire veleno – non esiste una soluzione univoca, e forse nemmeno esiste una risposta se non la necessità di iniziare a porsi domande, di aprirsi, di abbandonare i fardelli e i traumi del passato, giustificazione storica per il disprezzo del presente.
È un film profondamente stratificato, quello che dopo molteplici allori festivalieri giunge finalmente in sala distribuito da Cineclub Internazionale in collaborazione con Tycoon, un film d’amore sull’odio fatto di repressi e rifiutati che cadono in quello stesso gioco che li tiene ai margini della società, fatto delle loro contraddizioni e dell’ambiguità delle loro convinzioni, fatto di odio pregresso e di pregiudizi figli di un passato che il tempo non riesce a cancellare, fatto della necessità di parlarsi, confrontarsi, spostare il punto di vista. È un film fatto di personaggi smaccatamente negativi eppure profondamente umani, pronti a ribaltare il loro atavico rancore in momenti di straordinaria e quasi inaspettata intensità emotiva, complessi e straziati come la società che rappresentano, quella società che al contempo subiscono e alimentano, quella società di odio e chiusura, di intolleranza e non accettazione, quella società incapace di perdonare, quella società nella quale nemmeno un dichiarato omosessuale che ama travestirsi può sfuggire alle strette maglie dell’omofobia, costretto per tutta la vita a un ancestrale senso di colpa per essere semplicemente se stesso, tanto da decidere di non sporgere denuncia contro i “veri croati” che, rasati, borchiati e vestiti rigorosamente di nero, lo massacrano di botte per la sua sola “colpa” di essere truccato e di indossare un abito e una parrucca. Rajko Grlić, con evidente afflato antirazzista e con estremo rispetto per ogni personaggio messo in scena, punta a una giusta distanza che eviti l’eccessiva identificazione, ma che al contempo non dimentichi di umanizzare anche il mostro suscitando sincera pena anche nei confronti di chi sta vomitando veleno su un innocente, perché non esistono “buoni” e “cattivi”, esistono solo uomini e donne con i loro pregi e i loro difetti, con la loro cultura e con i loro pregiudizi, con le loro (in)sicurezze e con i loro fantasmi.
Ecco quindi che il fiero anticomunista Vjeko, destrorso professore esperto di storia e di quel passato all’origine dell’odio durante il giorno, conturbante drag queen di nome Katarina di notte, mai si perdonerà per la propria identità ma quotidianamente piange pensando al suo grande amore perduto, «magro come un uccellino dietro il suo violoncello» prima che si sparasse come eutanasia dalla malattia incurabile che lo affliggeva; ecco che la vicina di casa Maja, infermiera professionista da sempre evitata dal professore a causa del suo marito serbo e della sua bassa estrazione sociale, finirà per aiutarlo fino a diventare sua unica vera amica e a confessargli il senso di colpa per l’aborto passato che ora le impedisce di concepire; ecco che il di lei marito Ante, al di là del suo gomito alto e dei suoi deficit di apprendimento, si dimostrerà ottimo poliziotto in grado di risolvere da solo il caso dell’aggressione di Vjeko e al contempo, pur memore e orgoglioso della propria etnia serba, cittadino croato rispettoso della Costituzione ben più della stragrande maggioranza dei nativi croati al fianco dei quali ha combattuto nel sanguinoso ’91. Anche il fascistissimo padre di Vjeko, ustascia della prima ora responsabile di chissà quanti crimini contro l’umanità – quegli stessi crimini di cui ancora oggi gli esponenti della chiesa cattolica parlano come di un eroico «non dimenticheremo mai cosa ha fatto suo padre per la nazione» –, pentito di non essere riuscito a uccidere il figlio quando lo picchiò per la sua omosessualità, insopportabilmente capriccioso e sempre pronto ad allungare le sue disgustose mani verso le grazie dell’infermiera, si scoprirà ormai paralizzato e privo degli arti inferiori, moribondo, indifeso, inaspettatamente umano quando, forse per la prima volta dopo chissà quanti anni, fra alcool e vecchie foto, ritroverà e forse solo per qualche minuto riuscirà ad accettare il proprio figlio/la propria figlia. E pure il giovane e sportivo studente inizialmente sospettato di essere fra gli aggressori, quando avrà la possibilità di parlare da solo con Vjeko, si rivelerà senza riuscire a dirlo espressamente come un altro omosessuale incapace di scrollarsi di dosso il disagio per la sua diversità, alla ricerca di consigli sinceri da chi ha passato prima di lui i suoi stessi traumi e le sue stesse insicurezze.
Nella sua straordinaria cura fotografica The Constitution – Due insolite storie d’amore è un film volutamente duro e scomodo, quando necessario crudele, declinato però nelle forme di una commedia agrodolce e a tratti solare, fatta di violenze verbali e psicologiche seppellite da una risata, da un ballo sgraziato o da un pompino sotto le lenzuola per premiare lo “studente” preparato, fatta di ricordi dolorosi oppure/eppure sublimi, fatta di litigi e di aiuto reciproco, fatta di inaspettato affetto e di gratitudine. Certo, non manca qualche forzatura narrativa – la telefonata di Vjeko al Ministro che ribalta la posizione lavorativa di Ante sembra onestamente al di là delle possibilità di un insegnante transgender figlio di un soldato nazifascista che abita in un appartamento di Zagabria enorme rispetto a quello dei vicini ma non certo in una reggia, come pure non convince fino in fondo il personaggio, metafora di come la società, attraverso lo stesso masochismo del popolo bue che si danneggia da solo, nient’altro faccia che manipolare e prendere in giro la gente con succulenti bocconi avvelenati che riscrivono la Storia o per lo meno ne raccontano solo la parte che fa comodo raccontare, dell’assassino di cani che imperversa, fra salsicce con i vetri, fughe, arresti ed evasioni, per tutto il film. Ma, ben al di là di qualche soluzione un po’ troppo schematica, quello di Rajko Grlić è un lavoro che, in ogni situazione e in ogni personaggio, tiene perfettamente in conto le ambiguità di una situazione sociale fatta di ferite mai rimarginate, di traumi ancora e forse per sempre vivi sulla pelle, di disprezzi storici che procedono di generazione in generazione, di errori che si ripetono e che diventano uno sprofondare nelle aberrazioni che ogni (iper)nazionalismo non può che portarsi dietro. E dell’umanità che rimane anche in chi ha sbagliato e continua a farlo, perché anche nell’odio non può che annidarsi anche l’amore, e quello di Vjeko per Bobo è più forte anche della morte, infinito, totale, fra la puntina che ancora scorre sul vinile delle sue registrazioni e quella panchina sulla quale il violoncellista ha trovato il coraggio di dire basta.
Prima furono gli ustascia croati, partito e gruppo (para)militare apertamente fascista e filonazista durante la Seconda Guerra Mondiale, a perpetrare il genocidio contro i serbi, e poi ci furono gli anni delle guerre e delle pulizie etniche targate Milošević, con in mezzo le scuole, le autorità religiose e le convenienze politiche che, nei Balcani ancor più che in altri luoghi, hanno insegnato a odiare il diverso, ad aver paura del serbo, del croato, del bosniaco, del comunista, del nazista, dell’ebreo, dell’ortodosso, del cattolico, dello zingaro, dell’omosessuale. Di chiunque abbia un’idea, una religione, un’appartenenza etnica o un’indole diversa, ben al di là di una Costituzione che parla di popolo e di nazione, ma volutamente evita di specificarne il ceppo etnico, l’appartenenza o i gusti sessuali, le idee politiche o la Fede (o non Fede) religiosa. «Già che siete in molti a pensarla così, questa non vi serve più. Vi serve una nuova Costituzione, per un nuovo stato senza serbi, né musulmani, né zingari, ebrei, albanesi, omosessuali», sbraita Ante, che la Costituzione croata deve impararla a memoria per poter conservare il suo posto di lavoro in polizia, di fronte a Vjeko che, con calma e fermezza, forte delle sue convinzioni e delle sue esperienze personali, gli espone pacato quanto offensivo i motivi del suo malcelato razzismo, gli racconta dei traumi legati alla polizia titina da quando si recava in carcere a trovare il padre (comprensibilmente) prigioniero politico, gli ricorda le angherie subite dalla popolazione croata durante la guerra da parte dei serbi, gli dice chiaramente in faccia come non tolleri che sia un serbo a garantire con la sua divisa l’ordine ai croati, tanto da essere intimamente convinto che nessuno di “loro” possa davvero diventare croato, possa staccarsi dalla marcescenza nella quale, da anticomunista di ferro conscio di essere paradossalmente apostrofato come comunista dai neofascisti che lo inseguono e aggrediscono a causa della sua omosessualità, vede ormai avvolta un’intera etnia. Tanto da smettere di mangiare persino un dolce che trova squisito, ridicolmente bloccato dalla scoperta della sua origine serba, o da non mancare di definire «barbare» le folkloristiche usanze con le quali una moglie augura al proprio marito una buona giornata. Eppure, se non altro per la voglia reciproca di dimostrare all’altro di essergli superiore, il rapporto dialettico fra Vjeko e Ante magicamente funziona, con i suoi alti e bassi, con i suoi litigi e i suoi bocconi amari ingoiati, con i suoi bicchieri rotti e con i suoi momenti di completa solitudine a forgiare i vestiti da donna, con le sue (false) accuse di pedofilia e con i suoi (errati) dati statistici su come siano principalmente i poliziotti serbi a impugnare il manganello contro i croati, con le aree del cervello attivate stringendo i pugni per memorizzare e accedere all’informazione, fino al superamento del temuto esame “costituzionale”, fino al salvataggio di chi, una volta perso anche il mai amato padre da accudire, si vorrebbe suicidare ma non ne ha il coraggio, fino alla decisione di battezzare il figlio adottivo che dopo estenuanti battaglie legali arriverà la settimana seguente come il vicino professore, Vjekoslav se maschio, Katarina se femmina.
Partendo dalla Costituzione croata e dai principi di tolleranza e uguaglianza che dovrebbe portare in dote ma che vengono quotidianamente ignorati da chi preferisce chiudersi e odiare, The Constitution lavora intelligentemente di paradossi e di contraddizioni, mettendo in scena uomini il più possibile veri e complessi, con le proprie ragioni e con le proprie derive, con il proprio passato nel quale si ostinano a vivere e con il proprio presente con il quale non riescono a rapportarsi, con i propri pregiudizi che sfociano in odio aprioristico e con le proprie ambiguità – omosessuale e omofobo, serbo e croato, fascista e anticomunista, gerarca e invalido, sacerdote e nostalgico del Reich – con le quali sono quotidianamente costretti a fare i conti. Quello fra Vjeko, Ante e Maja è un rapporto nato per convenienza reciproca che a breve diventerà una vera e propria collaborazione pur nelle differenze a volte insormontabili, diventerà un dipendere l’uno dall’altro fino alla decisione, una volta esauriti i motivi di dipendenza, di andare avanti, di continuare a frequentarsi, di comprendersi fino in fondo nella cecità di una società che dovrebbe essere la patria che tutti dicono di amare e di difendere, e che invece è sempre più fucina d’intolleranza e di neofascismo. I personaggi di Grlić imparano sulla propria pelle la necessità di smettere di odiare (o per lo meno di sopportarsi, di vedersi sotto un’altra luce e diverse angolazioni) per creare qualcosa insieme – che sia un’amicizia, una famiglia, un’unità nazionale, o più semplicemente una vita normale, fatta di rapporti di buon vicinato e di sincerità, fatta di rispetto reciproco e di cooperazione, fatta di individui e non di categorie in cui rinchiuderli. I tempi tanto invisi a Vjeko in cui la Jugoslavia era Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, due alfabeti e un solo Tito sembrano ormai lontanissimi, falcidiati da una serie di guerre e da una drammatica dissoluzione, relegati all’ignominia storica imposta a posteriori dai vincitori, sempre più oscurati dal ritorno di fiamma dei fascismi e dell’intolleranza, dalla xenofobia, dall’odio che, quasi palpabile, si annida a ogni angolo di strada, in ogni appartamento, forse in ogni singola stanza. Tanto da chiedersi se di questa frammentazione, con i popoli da sempre messi spacciando menzogne per orgoglio nazionale l’uno contro l’altro e a volte contro se stessi, ci sia mai stato realmente bisogno. Finiranno mai le rappresaglie? Finirà mai il razzismo? Finirà mai l’omofobia? Finirà mai l’ultranazionalismo che ri-plasma la Storia in spettri destrorsi e intolleranti anziché in occasione di riflessione, di apertura, di dialogo, di comprensione per non ripetere gli stessi orrori?
Marco Romagna