THE CHALLENGE (2016) di Yuri Ancarani

Era già stato proiettato a Locarno, ovvero ad uno dei festival del cinema a cui siamo più indissolubilmente legati, ma abbiamo avuto modo solo ora, ad una proiezione al Torino Film Festival preceduta da The Hunchback, di recuperarlo: The Challenge di Yuri Ancarani, su carta, può sembrare il semplice documentario pseudo-artistico che prende una qualsiasi parte eccentrica di questo incomprensibile mondo documentandone i ritmi per motivi di denuncia o di normalizzazione di questo o quell’altro fenomeno. Ancarani fa un’operazione particolare e senza peli sulla lingua: estetizza e quasi ammutolisce i protagonisti e gli scenari del suo film, con un kitsch volontario che solo in un paio di momenti può sembrare ridondante o pretenzioso. Innanzitutto, è necessario comunque spiegare di cosa il film parla: della classe alta del Qatar e di uno dei propri hobbies più incomprensibili per l’Occidente, ovvero la caccia col falco. Incomprensibili non perché la falconeria non sia praticata in Occidente, bensì per i ritmi, le immagini e gli atteggiamenti di questi signori, emotivamente e quasi religiosamente legati ai loro pennuti. Il film è fatto molto di musiche, di silenzi e di suoni, e poco di parole, e anzi le frasi che si sentono sono sostanzialmente sempre le stesse, tra “questo è un bel falco” e “dov’è finito il mio falco?”. Le gare vengono mostrate con molte riprese a macchina fissa e giusto i momenti più epicheggianti e disorientanti vengono mostrati attraverso il punto di vista del falco. Aprendosi con un’ambiziosa, pacchiana e gratuita visione di un Monolito kubrickiano in mezzo al deserto e concludendosi con l’emozionante cattura di un piccione, il film ha dei ritmi sostanzialmente lenti, tipici del Cinema Diretto (il cinema documentaristico in cui il regista non interagisce con i soggetti del proprio film ma si limita a filmare), illustrando dunque la necessità di uno svago, per quanto relativamente strano, nella noiosa vita di questa classe alta, morta dentro, che scandisce la propria vita per movimenti estetici e ricchezze superficiali, senza importarsene di nulla e di nessuno.

Di recente, dopo un’excursus emotivo, non troppo serio e quasi adolescenziale che abbiamo messo in parole fuoriuscendo dalla semplice critica cinematografica, commentando la vittoria alle elezioni di Donald Trump, ci è stata mossa la critica di aver ridotto il concetto di immagine al concetto di meme, di aver confuso insomma la visività pura (e la sua libertà) alla scherzosa immagine online. Vorremmo chiarire questo punto, che in effetti necessita una giustificazione o una spiegazione: non è che l’immagine è il meme, l’immagine rischia di diventarlo e ha la potenzialità di diventarlo. Questa cosa si può legare al film di Ancarani, sia in positivo sia in negativo. La non-storia messa in scena in The Challenge non ha veri e propri spunti umoristici, ma nella pseudo-assurdità che vediamo noi Occidentali, ogni immagine è descrivibile e definibile come un qualcosa di umoristico, di “estrapolabile” dal proprio contesto storico-iconografico giusto per la genesi di un qualcosa di altro, di esterno. Questo è il meme, è la scomparsa del significato e del contesto dietro un qualcosa di visivo o di percepibile, tramutandolo in un qualcosa di inseribile in altri contesti, fino alla lenta, inesorabile, completa perdita di un significato. Questo è sia un pregio sia un difetto di The Challenge, perché da una parte ha sottolineato un aspetto interessante del film e dall’altra ha messo completamente a nudo l’incapacità di prendere sul serio determinate soluzioni visive che non si riesce a capire a quale mondo fanno parte: il mondo reale, descritto nel documentario, o il mondo fittizio, cinematografico.

Se lo scopo del cinema è quello di cristallizzare, delineare e storicizzare le immagini che scorrono nei tempi, The Challenge è un film efficacissimo, che riflette senza lungaggini sulla società, sulla cultura e sull’estetica di un popolo davvero lontano dal nostro, che grazie al cinema diventa vicinissimo. Più che altro è difficile vederci qualcosa di più, in questa specie di documento grezzo che risulta a volte ironicamente più vicino ad un videoclip che ad un documentario. Questo è proprio a causa dell’indefinizione portata dalla recente tendenza dei documentari di soffermarsi solo e soltanto sulle stranezze del mondo, per dare un significato a tutto, per giustificare il perché si facciano ancora i film, senza troppi didascalismi. Si tratta di un film-cornice, che non cambia nulla ed è giusto che non cambi nulla: è un film “tamarro” (e non si intenda come difetto) che rende “tamarra” la stessa realtà – che forse lo è già, di per sé, almeno in quel mondo così distante.

Nicola Settis